Al Campania Teatro Festival debutto il 6 luglio. Curino: “Siamo partire dalla considerazione che le donne geniali spesso sono destinate al martirio. Il martirio accomuna le donne che raccontiamo”.
Di Roberta D’Agostino
Debutta il 6 luglio (con replica il 7) al Campania Teatro Festival lo spettacolo“Artemisia, Caterina, Ipazia... e le altre” con Laura Curino, una delle più interessanti protagoniste della scena contemporanea, diretta da Consuelo Barilari.
Laura Curino, che tipo di emozione accompagna questo debutto?
Veniamo da un momento lungo, insopportabile, di silenzio quindi ho una voglia immensa di tornare in scena. È stato un periodo durissimo che spero davvero possa essere alle nostre spalle.
Che accoglienza si aspetta dal pubblico dalla città?
Napoli ha un pubblico diverso da tutti gli altri d’Italia, e forse anche d’Europa; qui esiste una soglia di pregiudizio molto bassa, si va a teatro e basta senza pensare che tutto sia già stato detto o rappresentato. Non esiste, inoltre, una divisione nel pubblico, vi è una notevole trasversalità che permette a tutti di frequentare teatri differenti. Non c’è la volontà di identificarsi con un solo tipo di platea, questo è qualcosa di molto bello.
Come è nato “Artemisia, Caterina, Ipazia... e le altre”?
Il testo definitivo, che ho curato io stessa, prende origine da un lavoro di scrittura drammaturgica collettiva condotto da Patrizia Monaco, organizzato dal Festival dell’Eccellenza al Femminile intorno alla figura di Santa Caterinadi Alessandria martire. Le prime versioni di testi che abbiamo avuto tra le mani hanno avuto bisogno di un lavoro di armonizzazione, perché avevano una certa indipendenza che non poteva andare in un lavoro come questo. Quindi rispettando le idee di tutti, ho lavorato per creare uniformità nel prodotto finale. Non le nascondo che ancora oggi, in fase di prove, abbiamo apportato delle ulteriori modifiche.
Cosa vedrà il pubblico in scena?
Una struttura scenografica semplice, con passerelle e pedane che mi permettono, come unica attrice in scena, di lavorare sui livelli differenti. Poi ci sono i teli alle spalle su cui vengono proiettate le opere di Artemisia Gentileschi con qualche divagazione come Giuditta e Oloferne di Caravaggio La scuola di Atene di Raffaello, Tre arcangeli e Tobiolo di Filippo Lippi, Tre arcangeli e Tobiolo di Francesco Botticini, Stanza dell’Aurora di Agostino Tassi e il Guercino, Il concertomusicale con Apolloe le Muse Agostino Tassie Orazio Gentileschi e molti altri. Rispetto alle opere proiettate ci sono dei momenti di consonanza ed altri in cui non c’è un rimando diretto.
Ritornando al testo come si è arrivati alla raffigurazione che la Gentileschi fornisce di Caterina d’Alessandria?
Santa Caterina è uno dei soggetti più rappresentati dai pittori di tutte le epoche. La scelta del gruppo del laboratorio è caduta nella rappresentazione che ne dà Artemisia Gentileschi, lei stessa vittima di violenza, con due dipinti molto famosi, uno appena acquistato dalla National Gallery di Londra, l’altro conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze.
La raffigurazione di una santa è un soggetto insolito per Artemisia, che ha dipinto grandi scene di forte impatto emotivo e significato, ma pochi ritratti.
Da qui quindi sono nati i numerosi rimandi presenti nel lavoro?
Si è creato un gioco d’immaginazione di sovrapposizioni e sdoppiamenti, riscritture che accostano ad esempio la figura di Caterina a quella di Ipazia, la filosofa pagana martirizzata negli stessi anni di Caterina, sempre ad Alessandria ad opera dei seguaci di Cirillo, che secondo molti studiosi è “immagine simmetrica e inversa” della santa.
Nello spettacolo è presente anche una vena ironica, come siete riuscite, anche con la regista Barilari, a lavorare su questo?
Siamo partire dalla considerazione che la voce delle donne, quelle grandi, geniali, spesso viene messa a tacere anche quando emergono, quando eccellono, sono destinate tutte al martirio. Il martirio accomuna tutte le donne che raccontiamo. Siamo andate a cercare una certa obiettività in Artemisia, la stessa che ha nelle sue opere, e con la stessa obiettività abbiamo cercato i lati ironici. C’è una scena in cui Artemisia è stanca, provata, e del processo che ha subito ne parlano due vecchi, che la spiano, chiaro qui il rimando a Susanna e i vecchioni. Questi due vecchi sono patetici, buffi nella loro povertà morale. Ecco l’ironia viene fuori anche in un momento di umanità ridicola e laida. Ma anche la scena in cui si analizza la scuola di Atene di Raffaello, che viene vista come una sfilata di moda di uomini vanitosi e vanesi con un’unica donna rappresenta, la nostra Ipazia, contiene una vena di forte ironia.
Come lei, che è l’io narrante della storia, si sente rispetto alle donne di cui parla?
Mi spavento, ho paura della forza di queste donne, sono un esempio da seguire ma è molto difficile convivere con personaggi così forti.
Emerge il rapporto di Artemisia con Napoli?
Sì, perché Napoli è la città che l’ha consacrata artista, nel monologo finale lei guarda il Vesuvio dalla riva del mare.
“Io – dice nello spettacolo – la figlia di un farabutto, la disonorata da un delinquente, io non voglio che mi sia concessodipingere, io lo farò e basta”. E lo ha fatto in maniera sublime.
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