Un pamphlet contro la mediocrità dell’uomo. Bellorini alla regia: “Il teatro
per aprirci gli occhi sulla realtà”
di Giuseppe Sollazzo
Dal parassita di Bong Joo-ho a quello di Molière. Il Tartufo, ovvero il parassita, l’impostore più famoso della storia del teatro, è in scena al Mercadante di Napoli dal 20 aprile al primo maggio. Pièce tra le più rappresentate in Francia, ha dato vita a interpretazioni fantasiose e controverse. Tramontati per sempre i tempi in cui i classici venivano considerati una sorta di parco nazionale della Letteratura, da ammirare con deferenza, senza toccare, ora è lecito aspettarsi letture temerarie. A Parigi, alla Commedie Française, – una volta tempio della tradizione – è in scena un Tartufo in tre atti, quello del 1664 a Versailles, con l’aggiunta di un prologo immaginato dal regista Ivo van Hove. Al teatro di piazza Municipio si vedrà la versione definitiva del testo, quella in 5 atti del 1669, l’unica tramandata ai posteri. Artefice dell’allestimento prodotto dal Teatro Nazionale di Napoli, è Jean Bellorini, padre e nonni italiani, astro nascente della regia francese, pluripremiato in patria, già direttore del teatro Gerard Philippe, e da marzo direttore dell’ancor più prestigioso TNP (Teatro Nazionale Popolare) di Villeurbanne. Inventato da Jean Vilar nel 1951, a cui si deve il sogno di un teatro necessario come il gas e la luce. Bellorini ha al suo attivo diversi spettacoli di successo, da L’anima buona di Sezuan di Brecht, alla reinterpretazione del mito di Orfeo, riscritto da Valère Novarina.
La nostra intervista sebbene solo di 6000 battute è durata due anni. Cominciata a Parigi nel mondo pre-pandemia, è terminata agli inizi di marzo, a Napoli, dopo i primi giorni di prove.
Signor Bellorini sono passati due anni dalla nostra prima chiacchierata, molte cose sono cambiate, ma per fortuna il teatro riprende il suo cammino. È contento di questi primi giorni di prove dei suoi attori?
“Sì, sono molto contento e gli attori sono tutti magnifici. Questi due anni di attesa, di speranza, hanno portato una forza, un’energia che sarà molto importante per lo spettacolo”.
Lei ha messo in scena anche testi tratti da romanzi di grandi scrittori come Proust, Dostoevskij, Hugo, cosa l’affascina dei testi letterari?
“Lavorare con un materiale che non è nato per la scena mi dà un grande senso di libertà. Ho la possibilità di operare insieme alla troupe e d’inventare lo spettacolo durante le prove. Insieme ci appropriamo del materiale e lo facciamo nostro. Anche la distribuzione dei ruoli non avviene a priori, in funzione del testo, ma tutto si definisce con il lavoro sul palcoscenico, cercando sempre di essere fedeli alla scrittura originaria”.
Cos’è un classico per lei?
“Il classico è qualcosa di atemporale, che vive sempre nell’epoca giusta. Un classico potrebbe essere anche un testo d’oggi capace di parlare del nostro tempo, e che sarà valido anche tra cento anni”.
Nel mondo di prima lei ha lavorato sia in Germania che in Russia, quindi sia con i pronipoti di Brecht che con quelli di Stanislavskij, che differenze ha riscontrato tra queste due scuole di pensiero?
“Credo che siano sopratutto i modi di produzione ad essere differenti. In Francia – fatta eccezione per la Comédie Française dove c’è una compagnia stabile – gli attori si riuniscono intorno ad un progetto per periodi limitati alle prove e alle repliche di uno spettacolo. Dopo sono subito pronti per un altro progetto, con altri attori e altri registi. In Germania e in Russia invece ci sono compagnie stabili, gli stessi attori lavorano tutti i giorni, recitano tutte le sere, e nello stesso tempo fanno le prove per altri spettacoli. Questi sono attori forse più allenati, però non ho visto grandi differenze, che pure mi aspettavo. In ogni caso, con i giovani attori con cui ho lavorato all’estero mi sono inteso molto bene come mi intendo molto bene con i giovani attori con cui lavoro in Francia”.
Ingmar Bergman sceglieva i suoi attori a cena, lei come ha scelto i suoi attori italiani?
“D’abitudine non scelgo, ho incontrato tanti attori italiani, ma senza fare provini, piuttosto una chiacchierata. Poi ho chiesto loro di recitare un brano a piacere tratto da Molière, ma sono attento piuttosto all’interiorità degli interpreti, al loro lato umano. In questo caso poi mi piaceva l’idea di costruire una famiglia che deve poi rappresentare una famiglia”.
Perché ha scelto proprio l’Italia per il suo primo Molière?
“In Italia c’è la tradizione di una lingua molto rapida, molto viva, ed è questo che mi ha dato voglia di provare ad allestire Tartufo in italiano. La vivacità della vostra lingua rende bene la gioia della lingua di Molière. In Francia in genere Molière o è psicologico, freddo, intellettuale, o è un po’ troppo comico. Penso che qui, proprio grazie agli attori e alla loro vitalità, si può avere una sintesi tra queste due tendenze. Si può avere un pensiero forte, una visione intellettuale senza perdere però la gioia del dire radicata nelle parole del drammaturgo francese, anche se nascondono una tragedia”.
Il teatro per lei è un viaggio per fuggire dal quotidiano o è il luogo dove si fanno i conti con la realtà?
“Direi entrambe le cose, abbiamo bisogno di dimenticarci del tempo della rappresentazione, ma per sentirci più vivi all’uscita dello spettacolo. È necessario essere in sintonia con la propria epoca, l’avventura del teatro deve servire ad aprirci gli occhi per essere più connessi al presente”.
Nei suoi spettacoli la musica occupa un posto importante, sarà così anche questa volta?
“Sì, per me la musica è come la madeleine di Proust, ha una forte capacità evocativa, e riesce a far battere i cuori degli attori e degli spettatori allo stesso ritmo. In questo spettacolo non ci sarà musica dal vivo come è mia abitudine, ma ci saranno brani registrati. Per il momento stiamo lavorando ad un progetto che vede da una parte l’utilizzo di una musica sacra per Tartufo, e dall’altra l’impiego di canzoni che spaziano dagli anni Sessanta agli Ottanta, e sto pensando a canzoni di Dalla e Mina. Come poi si evolverà questa idea nel corso delle prove, è ancora presto per dirlo”.
Cosa ci sarà in scena?
“Una grande cucina, e sul muro di fondo ci sarà la figura di un Cristo a grandezza naturale, che sarà presente dall’inizio alla fine dello spettacolo. E che nel finale si animerà e scenderà dalla croce”.
Per lei chi è Tartufo?
“Due anni fa quando ho cominciato a pensare a Tartufo, mi è subito venuta in mente l’immagine del Grande Inquisitore di Dostoevskij, adesso questa idea si è evoluta, molte cose sono cambiate. Oggi di Tartufi ce ne sono tantissimi, ce ne sono dappertutto. E il vero pericolo consiste nel fatto che appena muore un Tartufo, subito ne spunta uno nuovo. Il caos del nostro mondo attuale lo dimostra. Bisogna fare in modo che ad un orrore non ne subentri subito un altro”.
La famiglia alla quale si affida Bellorini per dare vita a questo pamphlet contro la mediocrità umana, è formata da attori di provata solidità. Gigio Alberti è Orgone, il capofamiglia che porta a casa Tartufo, interpretato da Federico Vanni. La moglie di Orgone, Elmira, è Teresa Saponangelo. Damis, il figlio, è Giampiero Schiano. La suocera Madama Pernella è Betti Pedrazzi. Cleante, il fratello di Orgone, è Ruggero Dondi. Dorina, la cameriera dalla lingua lunga è Angela de Matteo. Francesca De Nicolais e Jules Garreau sono i due innamorati. Filippote è Daria D’Antonio. Il deus ex machina che scenderà dalla croce, a cui è delegato il colpo di scena finale, è Luca Iervolino.
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