Martha Graham: con la danza traccio il grafico del mio cuore.
Da giovane, dinanzi a un dipinto di Kandinskij disse: “Un giorno danzero cosi”.
Omaggio all’artista che ha rappresentato il paesaggio interiore dell’uomo
di Giuseppe Sollazzo
Meraviglioso! Orrendo! Questi i giudizi altalenanti suscitati dalle opere di Martha Graham, la pioniera della modern dance americana. Figura controversa, detestata, discussa, infine idolatrata. Definita la Mallarmé della danza, a vent’anni vede un quadro di Kandinskij, una pennellata di rosso che attraversa il quadro da un’estremità all’altra, e dice: un giorno danzerò così.
È la maestra di diverse generazioni di attori: da Bette Davis a Madonna, da Woody Allen a Liza Minnelli. Il regista di Pensaci ancora Sam, per testimoniare la sua gratitudine scrive una battuta nell’opuscolo pubblicitario della scuola. Domanda: Che tipo di esperienza è stata frequentare un corso di Martha Graham? Risposta: Per me, una faccenda serissima. Per chi mi guardava, esilarante.
Più di duecento coreografie in 96 anni di vita. All’età di 75 smette di danzare, risultato: depressione e alcool. Di quel periodo dirà: non ero attirata dall’anonimato della morte. E riprende a lavorare. La sua ultima creazione è Maple Leaf Rag, un catalogo sulle fragilità umane.
Vittima di una una polmonite, muore nella sua casa a Manhattan nel 1991.
Molti decenni prima, passeggiando con i genitori, vede un manifesto che annuncia un’esibizione di danza di Ruth St. Denis a Los Angeles. Covince il padre ad accompagnarla, e la sera della rappresentazione la giovane Martha è lì, ad ammirare gli “a solo” della celebre danzatrice. E così la sua vita si trasforma in destino. Di lì a poco si iscrive alla scuola fondata dalla St. Denis e dal marito Ted Shawn, uno dei primi luoghi dove era possibile avere una formazione professionale fuori dagli schemi. Danze orientaleggianti, rituali dei nativi americani, elementi mutuati dallo yoga. Intanto la modernità fa i suoi primi passi. I balletti russi, Picasso, il cubismo. Della Graham si dice che fa con la danza quello che Stravinskij ha fatto con la musica.
Un giorno, allo zoo di Central Park a New York, si siede davanti a un leone in una gabbia e ne studia i movimenti per ore. Osserva come si muove da un lato all’altro della gabbia. È ammirata dal modo in cui l’animale si gira per riprendere la sua passeggiata. Dal leone apprende la maniera in cui muovere il proprio corpo. I critici scrivono che sul palcoscenico arde come una fiamma.
Nel 1923 Martha Graham ha 29 anni. Incoraggiata da Louis Horst, direttore musicale alla Denishawn, decide di lasciare la scuola e trovare la sua strada. Per creare un proprio linguaggio, fa tabula rasa del passato: la danza classica importata dall’Europa, la danza esotica insegnata da Ruth Saint Denis, e la danza libera di Isadora Duncan. Suo padre – specialista in malattie mentali – le consiglia di non fermarsi mai all’apparenza. Per rendere chiaro il concetto le mostra come l’acqua che sembra pura, appare impura se vista al microscopio. Solo il movimento non mente mai, precetto che seguirà per tutta la vita. Nelle sue coreografie affiora un modo nuovo di usare il corpo e lo spazio. Nel balletto classico le braccia e le gambe vengono usate come membra indipendenti dalla colonna vertebrale che resta sempre fissa, così che la danza è un susseguirsi di pose e movimenti graziosi che tendono sempre a dissimulare lo sforzo. Niente di tutto questo con la Graham, la quale considera la danza come movimento; rinuncia alle punte, al vocabolario classico delle cinque posizioni e inventa una tecnica fondata sulla contrazione e la distensione. La semplificazione della sua poetica si materializza con Lamentation un assolo datato 1930, in cui danza seduta, vestita di un abito viola di stoffa elastica che spinge in tutti i sensi, come una crisalide che vuole fuggire dal recinto della società. Lontana anni luce dai tutù e dai racconti di fate, dai cigni e dalle Giselle, si mette in ascolto del proprio tempo, condannando l’intolleranza in tutte le sue forme.
Nel 1936 Hitler la invita a danzare con la sua compagnia alle Olimpiadi di Berlino. Lei rifiuta, finendo in una lista nera di personaggi le cui sorti dovevano essere regolate una volta che la Germania avesse avuto il controllo degli Stati Uniti. Per tutta risposta sceglie per il suo assolo alla New Opera House, Judith, l’eroina biblica, su una partitura di un musicista ebreo, William Schuman.
Gli inizi della sua carriera sono stati tutt’altro che facili. La prima apparizione di Martha Graham a Parigi lascia la critica confusa. Quando vi ritorna quattro anni dopo, nel 1954, invita i critici a una dimostrazione di lavoro della sua scuola, mostrando loro gli esercizi del suo metodo. I quali furono per i critici la rivelazione di un’arte curiosa, di una potente originalità, la cui ricchezza, però, è lontana dal trasferirsi nei suoi spettacoli, fu il verdetto dei più.
La sfida della Graham è stata quella di raccontare il paesaggio interiore dell’uomo attraverso la danza. Le sue coreografie – spesso astratte – evocano il dramma dell’anima e della vita. Ella rifiuta per le sue creazioni il nome di balletto, e dona alle coreografie dei titoli poetici: Errance dans le labyrinthe, Chant ardent, Voyage nocturne, Cantique pour des comédiens innocent. Titoli che non mancano di suscitare ironie nel pubblico degli scettici. Un critico di Le Monde, dopo aver visto Lettera al mondo, termina il suo articolo scrivendo: La lettera al mondo dell’eccellente Martha Graham, da parte mia è rimasta senza risposta: avevo cambiato indirizzo.
Anche a Firenze, il pubblico non apprezza la sua Clytemnestra, e lei ringrazia inchinandosi al contrario, mostrando il sedere: “La sola parte di me che meritano di contemplare”. Ma non tutti sono dello stesso parere. Primo, Cocteau: “Bisogna esprimere tutta la nostra riconoscenza a Martha Graham e alla sua compagnia per aver compreso che la danza diventa sempre di più il veicolo del dramma. La danza è una sintassi, una lingua internazionale, in cui la passione si esprime nella sue forme più segrete”.
Il suo intento non fu mai quello di compiacere il pubblico con brani decorativi: “Se volete essere blanditi, divertiti e cullati da una falsa sensazione di sicurezza, la danza moderna non farà per voi”. Con Martha Graham la tragedia greca irrompe nel mondo della danza. Ispirandosi alle nascenti correnti psicanalitiche – più junghiane che freudiane – interpreta con rara potenza espressiva le eroine della mitologia. Attraverso Medea, Giocasta, Clitennestra, Fedra, indaga sui sentimenti elementari che abitano l’umanità fin dalle origini. Cave the Heart è una trasposizione della leggenda di Medea, uno studio sul sentimento distruttore della gelosia.
A chi la accusa di essere troppo intellettuale, risponde: “La modern dance non è cerebrale; essa si basa sull’energia vitale che è accordata alle nostre pulsioni. In ciò che concerne la tecnica, credo molto nella respirazione, nasciamo e moriamo con il respiro. La colonna vertebrale è l’albero della vita. È là che si concentra l’energia del corpo. E il danzatore deve avere un corpo forte, capace d’inviare vibrazioni, capace di sopportare il fardello della verità”.
La Graham voleva trasformare i danzatori in acrobati di Dio. Rifiutava l’idea di evocare la primavera con un fremito di braccia. Non ha mai fatto del proprio essere danzante un albero, un uccello, un fiore o una nuvola. Ma poteva essere nello stesso tempo l’arco e la freccia, la ferita e il coltello. È stata la prima artista del ’900 a sostenere che il corpo è l’abito sacro dell’uomo. Un giornalista del New York Times la incontra a 95 anni, mentre è impegnata in quella che sarà l’ultima coreografia. Alla fine della prova le chiede: “Che cos’è per lei creare una coreografia?”. Martha Graham risponde: “Tracciare il grafico del mio cuore”.
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