Il viaggio "ad alta voce" del creatore di Benjamin Malaussène
Di Luca Parisi
C'è un filo sottile, delicato, che lega la musica ai sogni. Ci sono i tasti di un pianoforte che diventano gradini. Una scala che conduce verso la poesia e che ogni tanto rischia di perdersi in una dissonanza. Nel jazz le chiamano blue notes. Suoni che non tornano. Che raccontano storie, altre storie. Cerca quelle, forse, Pennac. Da un po’ di tempo. Da quando ha deciso di giocare a tenersi ritto su quel filo sottile, e come un funambolo arrivare dove finisce il sogno e comincia il teatro. O la poesia. Cambia poco.
“Sa che rileggo ad alta voce?”. Lo ha detto spesso lo scrittore francese nato a Casablanca. Lo ha detto mentre parlava del suo Malaussène, lo ha ripetuto mentre ripercorreva le tappe che lo hanno portato allo spettacolo che il primo dicembre andrà in scena al Nuovo. Dal sogno alla scena. Un viaggio a caccia di un cammino antico, di un bisogno. Di un’emergenza. Tasti di un pianoforte, gradini, note, blue note. La ricerca della dissonanza. E in fondo, il sogno. Il palcoscenico. Il senso definitivo. La fine del viaggio.
Lo facevano i grandi. Flaubert, Dostoevskij, Dickens, Céline, Dylan Thomas. Leggere ad alta voce. Perché, tutto sommato, il linguaggio è un pensiero che diventa musica. E la musica è un sì, una testa che dondola, che annuisce, che dice: “Ok, ok. Va bene”.
“L’accuratezza del testo dipende dall’accuratezza del suono”. Lo ha detto mentre parlava del suo Malaussène. Lo ha ripetuto mentre parlava di teatro. Perché tra le pieghe di questa ricerca c’è la risposta ad una scelta. Arrivare a dire di sogni, dopo averli “letti ad alta voce”. Questo spettacolo, appunto. Gran bel progetto affidato a Clara Bauer e che vede lo scrittore per la prima volta protagonista assoluto. Parlare con il pubblico e raccontarsi. Sentirsi. Rileggersi. Lui che non avrebbe mai voluto fare l’attore. “Che ci faccio qui? Che ci sto a fare dietro le quinte di questo teatro, dietro a questa porta che sta per aprirsi sul palcoscenico? Ma che ho nella testa?”. Già. Che ha nella testa Daniel Pennacchioni, l’uomo che si è inventato il capro espiatorio di professione, che ha raccontato la saga di una famiglia strampalata che si muove in una ancor più strampalata Belleville. Siamo nel cuore della Letteratura. Ma oltre deve esserci qualcosa. La fine di un viaggio, l’oltre dedicato inesorabilmente a qualcosa che va più avanti della mera interpretazione. La narrazione, il racconto, l’oralità, i suoni del linguaggio. I sogni, infine.
Il punto di partenza è una strana visione onirica. Uno scrittore che si perde in un luogo dantesco dove, però, inferno e paradiso si confondono. E demoni e angeli hanno i volti di coloro che più lo hanno segnato. Diego Armando Maradona, Federico Fellini, il fratello Bernard e finanche il suo Benjamin. Suggestioni e illusioni. Volti reali, facce di carta. Personaggi e persone. Eroi e sconfitti. Bambini per sempre. Tutti calati nella bugia della scena e restituiti a una verità impossibile attraverso la parola, il linguaggio. Il suono. La voce. Che voglia pazza deve aver avuto Pennac. Cercare l’armonia di ogni sua pagina. E lanciare fogli bianchi nel buio di una platea. Verso il pubblico. Verso un incontro cercato mille volte e rinviato per pudore. Per tenerezza. Marcare una linea con una carezza. Verrebbe da dire. E quella linea è il confine fra interpretazione e narrazione, lettura e recitazione.
Un po’ di tempo fa, parlando di lettura, lo scrittore transalpino disse: “La lettura è un comportamento. La lettura silenziosa deve essere un risultato. Per me è una vittoria quando leggo un libro ai miei alunni e, ad un certo momento, mi sento dire: “Basta professore, voglio finire di leggere questo libro per conto mio”. Chissà. Forse è partito da qui per arrivare poi a rivolgersi alla platea; a raccontare, sulle assi di un palcoscenico, un libro, o semplicemente un sogno. Cominciare al buio. Lasciare che il pubblico ascolti, magari ad occhi chiusi, poi innescare l’alchimia del desiderio. La grande magia. Leggere, da soli, chissà dove, chissà perché. La vita ad occhi aperti. L’infanzia, forse. Fellini, sicuramente. Il regista che cercava per strada i volti che aveva sognato. E poi li portava davanti a una macchina da presa. “Conta poco che non siano attori. Contano quelle facce che cerco da una vita”. La vita a occhi chiusi. Il viaggio onirico verso la verità di una storia.
“Quando sogniamo il nostro cervello produce delle immagini che si trasformano in sensazioni. Immagini e sensazioni non possono essere spiegate per come sono, abbiamo bisogno di utilizzare le parole. Nel momento in cui ci affidiamo a quelle, immagini e sensazioni non saranno più le stesse, la nostra intelligenza diurna le reinterpreterà, ed ecco che poi nasce il racconto”.
Così nasce Dal sogno alla scena che porta Pennac a teatro.
Non resta che chiudere gli occhi e aspettare.
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