Ricordo di Vittorio Gassman. Fondò a Firenze la Bottega Teatrale
Di Antonio Tedesco
Come si fa, ripensando a Vittorio Gassman nel centenario della nascita (Genova, 1o settembre 1922), a non ricordare il folgorante titolo della sua autobiografia pubblicata nel 1981 dall’editore Longanesi, Un grande avvenire dietro le spalle. Un classico ossimoro che dice molto dell’uomo e dell’artista, ammesso che le due figure siano scindibili. Un titolo che sintetizza come forse meglio non si potrebbe una personalità che, al di là dell’immagine pubblica dinamica e brillante, era in realtà intimamente inquieta e tormentata.
“Un attore perfettamente sano è un paradosso”, è la citazione di una sua battuta che campeggia sulle buste di un noto “store” di libri. Indizi significativi che ci dicono del profondo livello di autoconsapevolezza, della acuta capacità di introspezione. Qualità preziose per un attore. Per un grande attore. Perché Vittorio Gassman alla fine è stato soprattutto questo, uno dei più grandi attori italiani, e non solo, del Novecento. Capace di muoversi con uguale maestria tra più mezzi espressivi. Cinema, teatro, televisione. Tagliando trasversalmente i generi, comico, drammatico, grottesco. Imprimendo sempre la sua personalità artistica, ma non sovrapponendola mai al personaggio interpretato. Grande “dicitore”, con fama di “mattatore”, dovuta appunto a questa sua incontenibile versatilità. Impossibile citare la sua sterminata filmografia, che annovera film epocali quali, Il sorpasso (1962) di Dino Risi, L’Armata Brancaleone (1966) e I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli.
Come difficile è riportare la quantità di ruoli interpretati a teatro, che era certamente la sua vera, grande passione, in una carriera più che cinquantennale. Dalle innumerevoli e spesso memorabili interpretazioni di personaggi shakespeariani, ai meno scontati Kean di Alexander Dumas, personaggio con il quale avvertiva profonde affinità, quasi un simbolo, a rappresentare “il tormento e l’estasi” dell’arte dell’attore, ad Affabulazione, tratto da Pier Paolo Pasolini, una cruda visione del rapporto padre‑figlio, che, dopo un primo allestimento del 1977, volle riprendere nel 1986 insieme al figlio Alessandro, allora molto giovane. E fu quasi come una seduta psicoanalitica, o un percorso di espiazione, da parte di un padre (lo stesso Gassman) afflitto da sensi di colpa per la scarsa vicinanza avuta con i figli.
Fino all’ultima messa in scena, Ulisse e la balena bianca, del 1992, un testamento artistico, a testimoniare il coraggio di un uomo che ha saputo rimettersi continuamente in gioco, fino all’ultimo.
Un lavoro attoriale raffinato e inesausto, il suo, che sentì il bisogno di mettere a disposizione dei giovani desiderosi di intraprendere la via del teatro.
Fondò a Firenze, nel 1979, la Bottega Teatrale, una scuola di recitazione in cui molti ragazzi si sono formati al “mestiere” e alcuni hanno diviso la scena con lui in varie tournée.
Un’altra dimostrazione della generosità di un uomo altero solo in apparenza. Forte e fragile allo stesso tempo, come spesso lo sono i grandi artisti che sulla scena mettono in gioco la loro stessa vita, il proprio entusiasmo, ma anche le proprie paure, la propria vitalità, ma anche la propria sottile, sotterranea, disperazione.
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