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Sarah Kane

Aggiornamento: 9 mag 2021

Dal rifiuto al mito. Venti anni dopo



di Viola De Vivo

Maggio 2019. Non c’è niente che non si possa rappresentare in scena: affermare di non poter raccontare qualcosa, dire che non se ne può parlare, è un atto di ignoranza terribile”. Sarah Kane porta in scena stupro, cannibalismo, torture, sodomie, atrocità di ogni genere. Ed è subito scandalo: la sua prima opera, Blasted (Dannati), rappresentata a Londra nel 1995, viene accolta dalla critica come “un disgustoso banchetto di sporcizia”. E poi problemi col padre, una delusione amorosa, la depressione. Nel 1999, a 27 anni, Sarah decide di morire: si imbottisce di pillole, viene salvata; ma quando apre gli occhi e capisce di essere ancora viva, si impicca con i lacci delle scarpe. In soli 5 anni di attività, la Kane ha sconvolto il teatro internazionale. Per renderle omaggio nel ventennale della scomparsa, ripercorriamo la sua arte con Dimitri Milopulos, che per primo, assieme alla regista Barbara Nativi, l’ha portata in Italia nel 1996, scegliendo Blasted per il Festival Intercity al Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino. Milopulos è stato marito e collaboratore della Nativi, che ha tradotto tutte le opere della Kane.


Milopulos, perché Blasted?

“Avevamo fatto una prima scrematura di testi, affidandoci alla nostra equipe di lettori. Nel buttare via quelli cestinati, mi cade l’occhio su Blasted. Attirato dal titolo che mi incuriosisce, lo riprendo. Comincio a leggere e non riesco a fermarmi: lo trovo bellissimo sia per i contenuti, sia per com’è scritto. Era stato scartato perché troppo violento, ma io vedo un testo importante, un nuovo classico: vi si riconosce tutta la nostra storia teatrale, dai tragici greci a Shakespeare, ai moderni. Ne parlo con Barbara e lo presentiamo come mise en espace; poi, nel 1997 lo mettiamo in scena. La preparazione è stata lunga e impegnativa, poiché si trattava di una novità assoluta per la cultura dell’epoca. Sarah ha lavorato assieme a Barbara alla traduzione, per curarla nei dettagli. È stato un debutto molto apprezzato, anche se qualcuno le ha dato della ruffiana, sostenendo che usasse la violenza solo per far parlare di sé”.

Qual è il significato della violenza nel teatro della Kane?

“Spesso hanno associato Blasted a Pulp fiction, e questa è una cosa che Sarah detestava. Era orgogliosa del proprio lavoro e aveva cura che la violenza non fosse interpretata come una provocazione, ma come necessaria. Non gratuita, ma sofferta. ‘Se vai a teatro e vedi un atto di violenza estrema, quando esci, forse non lo ripeti nella vita reale’, disse. Ha voluto rappresentare il male di vivere per aiutare a non viverlo. Ha sempre scritto per contrari”.

Poi vi siete occupati di Crave, che segna il riscatto della Kane. Cos’ha di diverso?

“Dopo altri due tentativi minori nel solco di Blasted, che sono Phaedra’s love e Cleansed, il suo teatro cambia radicalmente, raggiungendo una maturità estrema e immediata con Crave. Noi lo abbiamo tradotto ‘fame’, intesa come voglia estrema di qualcosa. È ciò che Sarah aveva dentro: una capacità di sentire con una profondità che la vita non le permetteva di tirar fuori. Da qui il bisogno di scrivere per far comprendere la sua interiorità. Crave introduce una poetica unica. Se nelle prime opere Sarah dava tutte le indicazioni sui personaggi e ciò che accedeva in scena, da Crave in poi lascia liberi, affidando tutto alla potenza espressiva del linguaggio e trovando la propria autenticità teatrale. Credo sia l’unica artista ad aver ricevuto pubbliche scuse sui giornali britannici. In Italia Crave le è valso il premio Ubu nel 2002”.

Infine, ha da poco rappresentato 4:48 Psychosis, che parla di un suicidio. Come interpretare quest’opera considerando che, poco dopo averla scritta, Sarah si uccise?

“Quando ha scritto Psicosi, Sarah non era consapevole di ciò che avrebbe fatto. Chi lo pensa, sbaglia. Ha impiegato un anno, facendo ricerche su manuali di medicina e ospedali psichiatrici. Eppure, lavorandoci, non mi sembrava un copione, ma un testamento. In esso non ho visto, come altri registi, il rapporto medico-paziente, ma il rapporto tra mille voci: la messa in scena non di una situazione concreta, ma di una mente con mille angolazioni, diverse e anche contrapposte. Una scrittura tragica, ma di lucida speranza. Sembra un flusso, ma in realtà tutto ha una logica, niente è messo lì per caso; ci sono continui riferimenti interni. Psicosi finisce con: ‘Per favore, aprite le tende’, quindi la morte è liberazione, necessità di liberarsi fino in fondo per trovare la pace”.

Cosa ha lasciato la Kane al teatro?

“Nel 2000 abbiamo fatto un convegno alla Pergola di Firenze, intitolato Chi ha paura di Sarah Kane?. Sarah è nata come un’autrice che fa paura perché porta l’orrore in scena. A distanza di vent’anni, nessuno la teme più: è diventata un mito. Sarah è stata la prima a non aver paura: di osare, di non piacere. Ci ha lasciato il messaggio che un modo diverso di fare teatro è possibile; che non tutto è stato detto, che si può dire in maniera diversa creando teatro nuovo. E ha aperto molte strade anche al pubblico, che ancora oggi si emoziona. Anche il pubblico dev’essere liberato dalle proprie paure: solo così si realizza quel dialogo che è l’essenza del teatro”.




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