Con "L'ultimo metrò" il regno della finzione si intreccia con un concentrato di realtà. Tutto è vero e tutto no. Tutti fingono e tutti sono reali. Poi, un "coup de théâtre". E un sipario che si abbassa
Di Antonio Tedesco
È un omaggio al mondo del teatro L’ultimo metrò, il film che François Truffaut ha realizzato nel 1980.
Quasi un contraltare a Effetto notte, del 1973, a sua volta un sentito e partecipato omaggio al mondo del cinema. Entrambi i film presentano forti componenti autobiografiche. Che in maniera più o meno velata sono rintracciabili nell’intera filmografia del regista francese. Figlio di una giovane donna dal carattere irrequieto e volubile e con un padre adottivo, Truffaut, del quale ricorrono quest’anno i novant’anni dalla nascita (Parigi, 6 febbraio 1932), non ebbe un’infanzia felice. Trovò nel cinema una sorta di rifugio ideale. Un luogo dove la vita era solo un riflesso di quella vera che lo attendeva fuori dalla sala.
“Ho sempre preferito il riflesso della vita alla vita stessa”, ebbe a dichiarare una volta il regista. E se Effetto notte si può considerare una esplicita dimostrazione di questo enunciato, L’ultimo metrò ne è un’ulteriore conferma. Il film è ambientato a Parigi al Teatro Montmartre, nel 1942, anno di occupazione nazista della Francia. Il teatro parigino, in cui gran parte dell’azione si svolge, si trasforma in un piccolo microcosmo dove si incrociano vite e destini e che, come sempre nell’opera di Truffaut, non sono mai autoreferenziali, ma assumono risonanze universali. Anni, quelli dell’occupazione tedesca, che erano ben impressi nella memoria di Franҫois che, ragazzino, faceva proprio in quel tempo le sue prime esperienze di vita. Anni fatti di stenti, borsa nera, sospetti, ambiguità, ribellione e collaborazionismo. Esperienze e ricordi che hanno molto segnato l’opera e la visione del mondo del futuro regista. Eppure anni in cui, forse per reazione (o perché le case erano fredde, come viene detto all’inizio del film) la gente affollava i teatri e le sale cinematografiche.
Ben attenta, però, a non perdere “l’ultimo metrò” prima che scattasse il coprifuoco notturno. Truffaut, che fin da bambino era stato uno spettatore accanito e insaziabile, era tra questi. Non sempre aveva i soldi del biglietto e spesso si imbucava nelle sale con qualche stratagemma. Di quei film aveva un bisogno vitale. Erano porte attraverso cui entrava in altri mondi. Solo lì si sentiva veramente a casa. C’è un personaggio nel film, il piccolo Jacquot, nel quale il regista sembra aver riversato questa sua esperienza giovanile. Un vivace ragazzino che a un certo punto fa il gran salto e “attraversa lo specchio” entrando nel magico mondo del teatro. Dove il regno della finzione si intreccia con un concentrato di realtà. Tutto è vero e tutto no. Tutti fingono e tutti sono reali. Prima attrice è Marion (Catherine Deneuve), divenuta direttore del Montmartre in sostituzione del marito Lucas (Heinz Bennent), regista e guida carismatica, che tutti credono fuggito all’estero perché ebreo, ma in realtà nascosto, con la complicità della moglie, negli scantinati del teatro. Il giovane attore Bernard (Gerard Depardieu), in apparenza frivolo e farfallone, è in segreto impegnato con la resistenza contro gli occupanti. Piccole ambiguità caratterizzano anche la costumista e scenografa Arlette, come l’attore e regista sostituto Jean‑Loup. Il titolo stesso dello spettacolo, in prova e poi rappresentato, è allusivo, La disparue. E poi c’è il critico collaborazionista Daxiat e la giovane Martine, che si arrangia con il mercato nero, furtarelli ed equivoche amicizie con gli ufficiali tedeschi.
Tutto un mondo che gira intorno al Teatro Montmartre e che si fa esso stesso teatro, rappresentazione di una realtà storica difficile e confusa, dove gli amori sono vissuti come momenti di fuga “clandestini” dalla realtà (come per il fugace rapporto tra Marion e Bernard e quello tra Arlette e la giovane attrice Nadine), e dove, al momento della liberazione dai nazisti, seguono giorni concitati in cui tutti sono contro tutti e nessuno sa bene da che parte stare. Truffaut gestisce questo materiale con grande maestria e un solido senso del ritmo. Affonda il coltello nelle piaghe della realtà, ma non fa nulla per farlo sembrare “reale”.
Guarda la vita in maniera indiretta, riflessa nello specchio della rappresentazione scenica, per sentirla più vera. E il film è così immerso in questa atmosfera da chiudersi proprio con un “coup de théâtre”. E un sipario che si abbassa. Abbiamo visto un film o una pièce che racconta la storia del film?
Il riflesso della vita più che la vita stessa.
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