La fortuna cinematografica delle commedie dell’artista francese. Tra doppiezze, apparenze, ipocrisie, il cinema recepisce la lezione dell’autore seicentesco e la restituisce in innumerevoli film. Mentr’egli sornione, dall’alto della sua opera, continua
a guardarci. E (amaramente) sorride
Di Antonio Tedesco
Nel 1925 il grande regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau realizzò un film, Her tartüff, tratto dall’omonimo lavoro teatrale del 1664, di Jean-Baptiste Poquelin detto Molière. Probabilmente una delle prime, se non la prima in assoluto, opera cinematografica ispirata al ricco repertorio del commediografo francese. Ma anche quella che forse meglio di ogni altra ne coglie a pieno, e con raffinata arguzia, l’essenza.
Trattandosi, ovviamente, di un film muto, Murnau ha dovuto fare a meno dell’incisività e della sagacia che contraddistinguono i dialoghi della commedia, avendo a disposizione solo il linguaggio delle immagini, oltre alle poche didascalie cui è affidato, per lo più, una funzione di raccordo. Se, semplificando, si può dire che Molière restituiva al pubblico (del suo tempo, ma non solo) in forma scenica ciò che quel pubblico stesso gli mostrava nella realtà quotidiana, Murnau effettua questa medesima operazione utilizzando al meglio gli strumenti che il cinema gli mette a disposizione. Replicando, in un certo senso, il raddoppio speculare tra palcoscenico e platea operato dall’autore, costruisce un film nel film. Nel quale un giovane e brillante attore mostra al vecchio nonno, raggirato da una perfida governante che vuole solo carpirgli l’eredità, un film ispirato al Tartufo di Molière. In pratica un film che si sdoppia in due (con grandi attori dell’epoca, quali Emil Jannings e Lil Dagover) e che, com’era per il teatro del grande commediografo, mette in atto un corto circuito tra lo spettatore e la scena (nel caso specifico il film) smascherando e rivelando il primo per mezzo della seconda.
Da questa geniale, e per molti versi anche definitiva, partenza, la fortuna cinematografica di Molière è proseguita nei decenni successivi con innumerevoli film che hanno attinto in maniera più o meno fedele alla sua opera. A conferma del fatto che i suoi personaggi sono archetipi che vanno oltre il contesto del suo tempo, una sorta di catalogo delle tipologie umane nelle quali ancora oggi ci possiamo riconoscere.
Molti i titoli che si sono riproposti negli anni. Lo stesso Tartuffe è stato ripreso in più occasioni. Nel 1984 anche da Gérard Depardieu, che oltre ad esserne interprete ne ha curato la regia, mentre Il misantropo vanta una versione televisiva ad opera di Ingmar Bergman, nel 1974, ma anche un adattamento australiano realizzato dal regista Carl Schulz nello stesso anno. Non mancano film ispirati a Le furberie di Scarpino o Il signor de Purceaugnac e a L’avaro, di cui va ricordata almeno la versione del 1980 interpretata da Louis de Funès. Un posto d’onore spetta senz’altro al Dom Juan, che già nella sua versione originale per il teatro trasgrediva i parametri scenici di unità di luogo, tempo e azione, allora molto rigidi, strutturando il testo con una sorta di montaggio ante litteram, che unito al fascino del suo protagonista ha molto sollecitato la fantasia dei cineasti non solo francesi.
Fino alla versione del 2015 di Vincent Macaigne che aggiorna ai nostri tempi la figura dell’implacabile seduttore restituendone un’immagine estrema e trasgressiva. Ma lo stesso Molière è stato al centro di alcuni film, a partire dalla monumentale biografia (260 minuti) realizzata dalla regista Ariane Mnouchkine, Molière (1978), come anche in Le avventure galanti del giovane Molière di Laurent Tirard, del 2007, nel quale ancora si trovano riferimenti al Tartuffe.
Da ricordare che anche Alberto Sordi ha trovato in un altro famoso archetipo molieriano, Il malato immaginario, un personaggio che corrispondeva perfettamente alle sue corde recitative nel film omonimo del 1979 diretto da Tonino Cervi.
Del 2013 è invece Molière in bicicletta di Philippe Le Guay, con Fabrice Luchini e Lambert Wilson, dove ancora una volta, anche se in modo diverso rispetto al film di Murnau, si sdoppia il piano della rappresentazione. Alceste, il protagonista di Il misantropo, commedia di cui nel film si progetta la messa in scena, rivive sul doppio piano del personaggio e dell’attore che lo interpreta, o meglio, aspira a interpretarlo, perché, come da copione, a causa dell’ipocrisia e della malafede che lo circonda, ma anche della propria eccessiva rigidità, le sue aspirazioni resteranno deluse.
E ancora una volta il mondo dello spettacolo, che nel film è rappresentato anche come crocevia di falsità e ipocrisie, si fa specchio universale di una società rivestita di apparenze che, come Alceste ben sa, usa le parole non per rivelare, ma per mascherare se stessa. Mentre da lassù Molière ci guarda e (amaramente) sorride.
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