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Leo, sciamano sospeso tra passato e presente

Aggiornamento: 12 mag 2021

A dieci anni dalla morte, ritratto di de Berardinis, ascetico Tiresia della scena



di Rodolfo Di Giammarco

Ottobre 2018

Sorseggiavamo assieme, io, Leo e Perla, una discreta teoria di bicchieri di vino, parlando di teatro, di lavoro, di esseri umani e di società, attorno a quel tavolo che era un altare laico e contadino nel cuore della loro abitazione, uno chalet frugale e indipendente al centro d’un cortile di palazzi della romana via Nizza.

Era l’inizio degli anni Ottanta. Ci si incontrava da tempo. Giornalismo o non giornalismo, interviste o non interviste, pezzi da scrivere o da non scrivere, mi piaceva e mi è sempre piaciuto tantissimo conversare con Leo de Berardinis, entrando in sintonia con quel suo avvolgente spirito caustico che avevo già intercettato nella pratica di tesi e antitesi a ruota libera con persone fuori dal comune del genere di Juan Rodolfo Wilcock (prima) o di Carmelo Bene (prima e dopo).

Qui, adesso, oggi, mi sento spinto a ritrarre Leo non in quanto fenomeno epocale della scena del secondo Novecento, una realtà indiscutibile, ma, più dappresso, più identitariamente, come istintivo genio oratore, come indole logorroica senza mai pace, come ospitale e ascetico Tiresia pieno di grazia luciferina, nella dimensione di accogliente e intimo saggio della montagna, nella qualifica di uno che (a dispetto dei luoghi comuni su di lui) rifiutava i panni dell’artista con l’aura del maledettismo, nella misura in cui era e si sentiva estraneo ai modi di dire del teatrante costretto a pensare solo da teatrante. Perché se proprio doveva cedere alle usanze d’un capocomico, di fatto preferiva ingaggiare l’interlocutore (il sottoscritto, in questo caso) nella ridda dei suoi amici occasionali, nel cenacolo dei suoi confidenti, nel circolo (quando ancora si lasciava andare a jam session etiliche) dei bevitori animati dalla stessa inconscia dimestichezza col bere.

Si sarebbe potuto scrivere un libro, come autobiograficamente ha fatto Toni Bertorelli, sul rapporto talora indissolubile e da improvvisazione jazzistica tra Leo e l’alcol, ma dopo varie ricadute e alterne disintossicazioni, seppi che poi il trasferimento nell’emiliana Cooperativa Nuova Scena interruppe, almeno in apparenza, la dipendenza dall’alterazione. Ma dicevo di lui uomo epidermico e colto, anima scabra e poetica, cuore sarcastico e tenero, fisionomia complice ed elevata. Lui così orgoglioso dell’inattualità delle cose, amante di Totò e di Lacan, emigrato sia al sud di Marigliano che al nord di Torino e di Bologna. Bastava scambiare chiacchiere mai meno che appassionate con questo sciamano socievole, e si toccava subito con mano la sua vocazione del darsi, del perdersi e dello scialare in una congerie sempre vertiginosa di rigore e libertà, di slancio pedagogico e di senso del possesso, di urgenze e di introspezioni. E dove mettiamo la sua voce? Un suono vellutato e accorato, un concerto di timbri rauchi, morbidi, sgangherati, pastosi, profondi, flautati, tuonanti, spifferati, reboanti, di testa.

Quando s’esprimeva, si sfogava, si sintonizzava a tu per tu, era la metafora d’un solista sassofonista di un’invisibile ma incombente orchestrina da camera d’un night della mente. E quando mi evocava Buster Keaton, Eduardo, Olivier o Charlot, o Charlie Parker, o addirittura Dante e Verdi, e Molière, mi faceva intendere che l’avanguardia in sé non esisteva, era se mai contaminazione folgorante, e già si soffermava su quel suo concetto di teatro popolare, di tradizione del presente, per il quale si sarebbe tanto battuto, coi suoi Shakespeare soprattutto. E s’infervorava per Castelporziano, per il Censimento al Parco dei Daini a Roma, per le tecniche dell’improvvisazione, per la poesia del Paradiso e per la poesia comica. Grande Leo.

Lo persi un po’ di vista quando salì a Bologna, e lui però, dopo lo svincolo da Perla nella consapevolezza (di lei) che assieme si danneggiassero per eccessi, guadagnò in strategia comunitaria, e mi riferiva di Elena Bucci, Marco Sgrosso, Francesca Mazza, Enzo Vetrano, Stefano Randisi e degli altri, fino al trauma del San Leonardo non più confermatogli da una governance comunale cambiata di segno.

Ma Leo continuava a trasmettere a me e a tutti la provvidenziale educazione antiretorica e affascinante del Teatro di Leo, parabola che sappiamo com’è finita.

Il vino d’un tempo rimase garanzia di verità. E lui e la sua eredità scenica non s’esauriranno mai. Nelle prove, mi ricorda Elena Bucci, usava Beethoven, Monteverdi, Wagner, Bach, Mozart. Una politica delle musiche per un teatro della politica.


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