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Jean Vilar

Coltivò l’utopia di un’arte che fosse servizio pubblico. I rapporti con Gérard e la Moreau



di Giuseppe Sollazzo

Jean Vilar, la notte prima di morire, si alza dal letto e va alla finestra a guardare il mare. E, fissando l’orizzonte lontano, recita confusamente un monologo. Circa quarant’anni prima Vilar è nascosto nel buio di un teatro mentre guarda le prove di Riccardo III, dirette da Charles Dullin.

Fra queste due inquadrature si snoda un’utopia lunga una vita: fare del teatro un servizio pubblico. Come l’acqua, il gas e la luce. Nato nel 1912 a Sete, sud della Francia, a vent’anni lascia un biglietto sotto al cuscino del padre e fugge a Parigi.

Sogna una carriera artistica da scrittore, ma una sera il destino, sotto le sembianze di un amico, lo porta all’Atelier, un teatro nel cuore di Parigi, e la mattina dopo i suoi sogni cambiano.

Studia con Dullin, e dopo il servizio militare è scritturato dalla compagna itinerante La Roulotte. Gira per paesini recitando nei cortili, nei teatri parrocchiali, nelle sale da ballo, per un pubblico felicemente impreparato e nuovo. Nel 1943 fonda la compagnia des Sept. Nel 1945 la svolta.

Mette in scena Assassinio nella cattedrale al Teatro du Vieux-Colombier, ISO repliche e premio della critica. Nel 1947 un amico, (un altro), Christian Zervos, gli propone di replicare lo spettacolo nella Cappella dei Papi ad Avignone. Vilar in un primo momento rifiuta, poi rilancia. Non una, ma tre pièce. Riccardo II di Shakespeare, Tobia e Sara di Paul Claudel, La terrasse de midi di Maurice Clavel. Non solo al chiuso, anche all’aperto. Comincia così una misteriosa storia d’amore tra la notte e il teatro, tra il vento e i poeti, tra le stelle e la platea. Il gesto è rivoluzionario. Eliminare il sipario, la ribalta, il suggeritore, la scena magniloquente, vuole dire far rivivere la millenaria sfida tra la nuda parola e la nuda pietra. La cornice è l’imponente muro del Palazzo dei Papi, una parete larga trenta metri.

Ha inizio un’era di tinte sobrie, di scene spartane. Per Vilar una poltrona è la sala del trono, una colonna è un tempio, un albero è una foresta. La musica va usata come ouverture o come legame tra due scene, oppure in quelle occasioni in cui il testo lo esige, come l’intervento di una musica lontana, una canzone, un divertimento musicale. Fa dello spettacolo l’espressione del corpo e dell’anima dell’attore. Nella temeraria impresa coinvolge la diciannovenne Jeanne Moreau, fresca di Conservatorio. La prima settimana d’arte ad Avignone è un successo. A questo punto si chiede cosa bisogna fare perché il teatro ridiventi il cemento sociale capace di tenere insieme una società disunita.

Ed ecco che nel 1951 è nominato direttore del Teatro Nazionale di Chaillot, da lui subito ribattezzato Teatro Nazionale Popolare. Spettacolo inaugurale è Madre Coraggio di Bertolt Brecht, debutto a Suresnes, in banlieu, sotto un tendone. Basterebbe già questo per considerare Jean Vilar nostro contemporaneo. La diffusione del teatro lontano dai teatri, e il teatro popolare. “Ringraziando Iddio - dice in un’intervista - ci sono ancora persone per le quali il teatro è un nutrimento indispensabile come il pane e il vino, è a loro che si rivolge il TNP.

L’arte del teatro popolare è dunque una rivoluzione permanente’: Durante la guerra d’Algeria dirige Antigone di Sofocle, e L’irresistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht. In una conferenza data alla Sorbona nel 1967 mette in luce le caratteristiche del teatro popolare: prezzi bassi, repertorio classico o moderno purché di alto livello, interpreti di classe. Tra questi, l’astro nascente del teatro francese: Gérard Philipe. Già star internazionale, richiesto da teatri e da impresari, sceglie Vilar, con il quale condivide l’impegno civico e la frenesia della diffusione del teatro.

“Ogni volta che vedo recitare Gérard - dice Vilar - mi meraviglio dei suoi doni, della sua grazia discreta, della sua tecnica pura: Insieme danno vita a spettacoli leggendari come Riccardo II di Shakespeare, Il principe di Homburg di Heinrich von Kleist e Il Cid di Pierre Corneille. Gerard Philipe veste i panni di Rodrigo per 199 repliche. E quando all’età di 37 anni una malattia imperdonabile lo colpisce, chiede di essere sepolto nei panni dell’eroe spagnolo. (Non sapremo mai come sarebbe stato il suo Amleto diretto da Peter Brook).

A Chaillot il TNP in dodici anni di attività registra una media di 2336 spettatori a sera, e più di 30 paesi stranieri visitati. Nel 1968 ad Avignone Vilar porta il Living di Julian Beck, Maurice Bejart e La Cinese di Jean Luc Godard. L’avanguardia più radicale. Poi, l’artista viene contestato al grido di Vilar-Salazar, ma resta al suo posto. “Credo di aver fatto nella mia epoca il teatro del mio tempo”, confida ai suoi collaboratori. Muore nel 1971, molti dicono sopraffatto dal dolore dell’incomprensione.

Jean Vilar non è stato soltanto l’attore, il maestro di attori, il regista, l’amministratore, il contabile, è stato un uomo con uno sguardo a 360 gradi sulle cose del teatro. Celebri le sue “note di servizio”, nelle quali appuntava di tutto: dalle raccomandazioni alle mascherine di essere gentili, ai rimproveri agli attori. “Recitare a due le scene a due. Appendere i costumi alle stampelle. Non rallentare le battute. Non tubare nelle scene d’amore. Non fare rumore con le spade dietro le quinte”.

Ad un’attrice della sua compagnia, Vilar scrive: “Arrivare, diventare qualcuno, è il peggio dei cammini avvelenati. La felicità non è alla fine di questa strada dannata. Che un’ambizione sostenga la vita di un’artista della scena, va bene, ma non bisogna diventarne schiavi. Essa non può essere: ‘Sarò la prima’. Non può essere: ‘Sarò la gloria della mia arte’. L’ambizione mal riposta rode dal primo giorno la nostra vita, i nostri nervi, i nostri organi. Bisogna imparare a liberarsi da tutto ciò. È il primo approccio al nostro mestiere. Noi attori, ciò che cerchiamo, ciò che vogliamo, è la felicità. Un ‘pezzo’ almeno di felicità (e non di gloria). Come tutti gli altri uomini. E come tutte le altre donne”.


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