Il ricordo a vent’anni dalla morte. Figura centrale per la scena del Novecento, il regista polacco ha firmato spettacoli capolavoro. Dal Teatro Laboratorio al Workcenter
di Franco Ruffini
Marzo 2019
Jerzy Grotowski è nato a Rzeszów, in Polonia, nel 1933. Negli anni tra il 1959 e il 1969, prima nella cittadina di Opole al Teatro delle tredici file – tanti erano i pochi spettatori previsti –, poi dal 1964 nella città di Wrocław come “Teatro Laboratorio”, ha creato alcuni tra gli spettacoli capolavoro della seconda metà del Novecento. Il cosiddetto mondo libero – per contrasto con la Polonia comunista di quegli anni – se ne accorse nel 1966, con le trionfali repliche de Il Principe costante nel parigino Théâtre de l’Odéon. Quasi increduli di quanto avevano visto, i critici di professione parlarono della performance del protagonista Ryszard Cieślak come di un Himalaya.
Una vetta irraggiungibile, se non dagli iniziati a quelle atmosfere iperuranie: dove non si sa bene cosa, ma il teatro non è più solo teatro. Ma già prima, nel 1962, per citare solo un altro titolo, Grotowski aveva presentato Akropolis: dove, nella piena verità della finzione, si mostrava un campo di sterminio come la cattedrale della nostra civiltà. Dopo Il Principe costante, nel 1968, un nuovo spettacolo – Apocalypsis cum figuris – e, nello stesso anno, il libro Per un teatro povero. Pubblicato in inglese, e subito tradotto in diverse altre lingue, quel libro divenne un riferimento obbligato per la gente di teatro. I diseredati soprattutto, gli esclusi, vi trovarono ragioni e strumenti per fare quello che solo loro, contro tutto e tutti, chiamavano teatro.
Se era stato il primo, quel Per un teatro povero fu anche l’ultimo libro di Grotowski. Così come Apocalypsis fu l’ultimo spettacolo. Nel 1970, al culmine della fama internazionale, Grotowki annunciò che non avrebbe più fatto spettacoli. E tenne fede alla parola. Non ha più fatto spettacoli, ma non è uscito dal territorio del teatro. Al contrario, si è inoltrato sempre più in quel cammino nascosto in cui, semplicemente, il teatro non si esaurisce nello spettacolo ma si propone anche come uno yoga per il “lavoro su se stessi”. Lo si sapeva, lo si sa da sempre. Grotowski l’ha proclamato a voce alta: che l’uso pubblico del teatro non è la negazione dell’uso per sé, ne è solo l’opposto, come l’altra faccia d’una stessa moneta. Se c’è solo una faccia, vuol dire che la moneta è falsa. O peggio, fasulla, come le banconote da milioni di lire del vecchio gioco di Monopoli. Grotowski non solo l’ha proclamato, soprattutto l’ha tradotto in pratica, facendo dell’attore per l’arte della scena il Performer dell’”arte come veicolo”, così come – dopo “il teatro dello spettacolo”, il parateatro e il “teatro delle fonti” – viene definita la fase ultima della sua ricerca.
Jerzy Grotowski è morto. Quand’è stato? Le domande tanto più sono feconde, quanto più è altrove che se ne deve cercare la risposta.
Quand’è stato? Ai registri di stato civile di Pontedera risulta il 14 gennaio 1999, giusto vent’anni fa. È ovvio, quel tipo d’uffici si occupa di corpi. Quando il corpo diventa cadavere, è lì in quel momento che “è stato”.
Ma i maestri di teatro non sono soltanto il loro corpo. Sono nuvole. Lo diventano in vita, accumulando in un’aerea sacca da viaggio esperienze, pratiche e strategie, incontri, invenzioni, visioni. Quando il corpo non c’è più, la nuvola taglia gli ormeggi e s’invola, per andare a piovere chi sa dove, e chi sa per chi e perché. Non so cosa pagherei per averla inventata io, l’immagine del maestro‑nuvola, ma a ciascuno il suo, il copyright è di Eugenio Barba. Più che poesia, il maestro-nuvola è una metafora. Una di quelle che non si limitano a volarvi sopra, ma che proprio fanno volare la realtà, distillando dai vapori pesanti dei dati di fatto l’aria sottile del senso. Il senso, si sa, sono domande.
Cosa c’è nella nuvola-Grotowski? Dov’è andata a piovere, e dov’è che andrà a piovere? Sicuramente in quella nuvola c’è tutto quanto è scritto nella scheda in apertura: gli spettacoli capolavoro, il libro Per un teatro povero, parateatro e “teatro delle fonti”… Ma i maestri lasciano cadere gocce che evaporano anche dentro la nuvola d’altri maestri. La nuvola-Grotowski è di Grotowski, ma non c’è solo Grotowski al suo interno. C’è anche Stanislavskij, ad esempio, con le sue azioni fisiche come strumento per il “lavoro su di sé” a parte il lavoro dell’attore; e c’è Mejerchol’d, scienziato e martire dell’organismo in azione dietro la gesticolante facciata del corpo pavone; e c’è Gurdjieff, che della vita quotidiana seppe fare un percorso verso la conoscenza, al di fuori e a fianco del percorso nel teatro. I maestri coabitano l’uno dentro la nuvola dell’altro.
Nella nuvola-Grotowski che aveva abbandonato lo spettacolo c’è, infine, tanta nostalgia per lo spettacolo: in quella catena “dalla presentazione all’arte come veicolo” – com’è il titolo di uno dei suoi testi più conosciuti –, che lungo la biografia si dispiega per fasi, ma che nel teatro in essenza c’è sempre tutta insieme, dalla rappresentazione allo yoga, dal lavoro per la tecnica alla trascendenza della tecnica. Dove andrà a piovere quella nuvola? Sappiamo – perché lo confessò lui stesso – dove e per chi avrebbe voluto piovere. Grotowski aveva pensato al Workcenter – il “Centro di lavoro” per la pratica dell’arte come veicolo, creato a Pontedera nel 1985, per iniziativa di Roberto Bacci e del suo “Centro di Ricerca teatrale” – come a una sorta di monastero, in cui si sarebbero ritrovati vecchi attori provetti, padroni d’ogni tecnica e attratti da quello che c’è oltre la tecnica più provetta. Attori tipo Michel Piccoli, o Vittorio Mezzogiorno o, nel passato prossimo, Louis Jouvet o Jean-Louis Barrault, per intendersi. Dovette arrendersi all’evidenza che attori di quella specie non ce n’erano a sufficienza, e quelli che c’erano non erano motivati a sufficienza per ritirarsi in un qualsiasi monastero. Come sempre, non cercò compromessi. Rovesciò la domanda. Si rivolse a giovani attori, o solo aspiranti tali, tanto poveri di tecnica quanto ricchi d’inquietudine, se così può essere definita la motivazione quando non ha chiarezza del proprio oggetto. Il Workcenter aprì le porte alle visite di gruppi, per confrontarsi con Grotowski e con l’allievo‑erede Thomas Richards sul veicolo teatro, senza fare né farsi – ma nemmeno vietarsi – domande su quale potesse esserne l’approdo ultimo.
Negli ultimi anni, studiosi di provata accademia – non solo italiani o polacchi – si vanno interrogando su un ipotetico dopo-Grotowski in continuità con il prima, analizzando e accompagnando criticamente le varie attività del Workcenter. Non faccio parte di quel gruppo di studiosi. Più che sulle iniziative del Workcenter, penso che la nuvola‑ Grotowski possa utilmente piovere sul territorio che Barba ha chiamato “Terzo Teatro”.
Come quando il corpo era in vita, anche adesso che è morto. È morto, non ci sono dubbi. Ma quand’è stato?
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