Cerciello con l’opera di Jelinek “Trascino lo spettatore di fronte alle proprie responsabilità”
di Elide Apice
FaustIn and Out di Elfriede Jelinek, con Marina Bellucci, Mariachiara Falcone, Michela Galise, Serena Mazzei, regia di Carlo Cerciello, seconda parte del dittico Peep Tragedy – il tragico dal buco della serratura, sarà in scena all’Elicantropo di napoli dal 13 aprile al 15 maggio. In collaborazione con Elledieffe e con il sostegno del Teatro Pubblico Campano.
Cerciello, come arriva a questo progetto?
“Peep tragedy sottolinea la condizione dell’uomo contemporaneo che resta alla finestra senza intervenire, e se può non lo fa, perché fortemente disorientato. Il peep tragedy è trascinare lo spettatore di fronte al dramma, affascinarlo e tirarlo nella trappola del falso gioco che lo mette di fronte alle proprie responsabilità. Ecco perché la scelta di un numero ridotto di spettatori, solo diciotto per sera, invitati ad essere dentro le storie”.
Perché la scelta di Cassandra di Christa Wolf, per la prima parte del dittico, e ora di FaustIn and Out?
“Sono testi attuali, entrambi al femminile, perché da una parte le donne sono l’anello debole della catena, sottoposte a sfruttamento, e dall’altra è femminile il senso di ribellione e il tentativo di sovvertire le regole. Nel cast, quindi, ci sono solo donne. Inoltre l’autrice lascia liberi sulla scelta dei ruoli a parte le indicazioni per Spirita e Fausta che sono i due elementi fondanti da cui trae ispirazione per lo svolgimento del suo testo rispetto all’Urfaust di Goethe. Le storie parlano di donne partendo dalla definizione della stessa autrice di “dramma secondario dell’Urfaust”, cioè dramma che incrocia il dramma classico e lo disturba cambiandone gli obiettivi. Come nell’Urfaust, contiene l’IN e l’Out. L’IN è il dentro e, in questo caso, è il sotto, il marcio, l’ombra che è presente in ognuno di noi, e l’OUT è l’apparenza che nasconde il marcio attraverso l’ostentazione di un benessere individuale e sociale.
Jelinek si concentra su quattro vicende di cui la più importante è quella di Elisabeth Fritzl, asse portante del testo. Un’altra storia simile alla prima, ma che viene solo citata, è quella di Natascha Kampusch. Entrambe segregate in uno scantinato, la prima tenuta prigioniera dal padre per 24 anni, durante i quali metterà al mondo sette figli, mentre il padre aguzzino condurrà una vita del tutto normale con sua moglie, al piano superiore. Nello scantinato c’è uno sdoppiamento, e lo sfruttamento si trasferisce ad altre due donne prese dalla cronaca, entrambe vittime di un ulteriore tipo di sfruttamento, quello della società neocapitalista, del liberismo, della schiavitù, dell’economia. All’interno di questo scantinato le donne hanno come unico riferimento un televisore, quindi tutto è filtrato dai media. La realtà che giunge loro, dunque, è distorta, questo le porta a rinunciare ad una vita libera, perché non sanno riconoscerla”.
Come è strutturata la messa in scena?
“Lo scantinato diventa un peep show, una sorta di luogo dove la platea può spiare all’interno. Il pubblico è dietro ai vetri, ma è anche dentro, diventando protagonista dello stesso gioco perverso. Voglio che si senta corresponsabile. La nostra colpa infatti è quella della deresponsabilizzazione. Di fatto non si agisce mai rispetto ai problemi perché non c’è mai un vero spirito sociale, l’uomo oggi è quello delle rivoluzioni alla tastiera, incapace di prendere decisioni”.
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