Omaggio a Beckett. Una messinscena ai confini del mondo
Di Maddalena Porcelli
Chi ha avuto l’opportunità di conoscere il cinema e il teatro di Antonio Capuano sa bene quanto sia difficile rivolgergli domande che non rischino la banalità. Perciò ho un po’ temuto, prima di decidermi a intervistarlo, di non riuscire nell’intento. Inoltre, e non trattasi di un dettaglio marginale, tenendo conto della sua estrema sincerità, ho pensato che avrebbe potuto liquidarmi con un “ma se non hai visto lo spettacolo che domande vuoi rivolgermi?”. Poi, stringendo i denti e con almeno una domanda legittima, ho composto quel numero.
Antonio Capuano firma la regia di Totò e Peppino (Omaggio a Beckett). Prodotto dal Teatro Di Napoli-Teatro Nazionale, è in scena al Mercadante di Napoli dal 16 al 27 novembre e vede in scena gli attori Roberto Del Gaudio e Carlo Maria Todini. L’aiuto regista è Emanuele Donadio, le scene di Antonella De Martino, i costumi di Francesca Balzano e le musiche di Federico Odling.
Sul titolo avevo rimuginato parecchio, sforzandomi d’immaginare un collegamento tra i tre, dunque avevo tra le mani una domanda concreta e legittima e gliel’ho posta.
“Tutti conoscono il comico Totò, pochi la sua malinconia”, risponde Capuano. “Si racconta che durante le riprese di un film, avendo sentito parlare di Beckett, chiese di leggere un suo testo teatrale e quando giunse all’ultima pagina di Finale di partita – era sul set –, richiudendo il libro disse ai presenti: “Mi si confà”. E insieme a Peppino misero in scena quello spettacolo. Per anni ho cercato di averne notizie, ma invano. Lo spettacolo sembrava essersi dissolto nel nulla. E allora l’ho immaginato e ho deciso che lo avrei portato in scena”.
Soltanto quando gli chiedo informazioni sull’idea di messinscena e lui mi risponde che lo ha immaginato in un teatro abbandonato, ai confini del mondo, in un luogo deserto e senza pubblico, comincia a farsi chiaro il senso di quel legame che ricongiunge i tre: Totò, Peppino e Beckett.
“Dopo Totò, a cui sono totalmente devoto, c’è Beckett, tra i più grandi drammaturghi in assoluto. Nel dialogo, che è il fulcro dello spettacolo, i due parlano o stanno in silenzio.
”Ma che lo facciamo a fare, non c’è nessuno!”, dice l’uno all’altro. Eppure continueranno a rappresentarlo, anno dopo anno, perché, come ebbe a dire Beckett: “Bisogna continuare, nonostante tutto”. Ciò che unisce i tre è la volontà di resistere, nonostante la lucidità con la quale essi hanno percepito la disgregazione del mondo circostante”.
Questo è il messaggio che Antonio Capuano vuol farci arrivare: un messaggio di resistenza di fronte al tempo d’oggi, caratterizzato da una cupa omologazione.
“Uno spettacolo difficile, che non so come verrà accolto. Difficile per chi non conosce Beckett e difficile per chi non conosce la malinconia di Totò, che è un aspetto fondante della sua personalità, con la quale nessuno vuole misurarsi. In realtà, tra Beckett e Totò c’è un legame forte, anche se il primo non ha mai conosciuto il secondo. C’è però da sottolineare quanto il drammaturgo irlandese abbia indagato sulla figura della marionetta, quanto abbia amato Charlie Chaplin e Buster Keaton e questo è sicuramente uno degli anelli di congiunzione tra i due”.
Capuano mi parla dell’attore che incarnerà Totò: Roberto Del Gaudio. Della sua straordinarietà. Mi dice che è anche un musicista, con un orecchio finissimo, così come era quello di Totò. E chiosa, con un moto di entusiasmo: “Totò, unico al mondo, basta!”.
Facile capire perché il regista ami così tanto Totò e ne racconti emozionato le sue vicissitudini, a partire dall’infanzia dolorosa, dell’uomo che ebbe a dire che solo chi ha profondamente sofferto è capace di far ridere. Credo che l’individuazione del legame poetico che intraveda in quella melanconia che a tratti, fugace, appare sul volto di Totò e che trasuda dai protagonisti di Finale di partita, non poteva che emergere da un artista la cui cifra stilistica si fonda tutta sulla capacità di scavare in profondità nell’animo umano, suggerendoci di guardare oltre gli schemi prefissati che impongono il giudizio perentorio, la sentenza definitiva, la critica distruttiva o mitizzata, a seconda della norma di riferimento imposta. Ecco perché, in tutta la sua produzione cinematografica, lo ritroviamo sempre al fianco degli ultimi, dei “colpevoli”, dei “condannati”, laddove riesce a scorgere, tra le pieghe nascoste di una visione data, squarci di luce, di tenerezza, di spontanea solidarietà, d’inclinazione benevola, carica di umanità.
“Ho letto ’A livella giorni fa, me so’ mise a chiagner’. Piangevo come un bambino”.
Quello dell’infanzia rubata è forse, in un modo o in un altro, il tema che gli sta più a cuore: basti pensare al suo film di esordio Vito e gli altri (1991), a Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1996), a La guerra di Mario (2006), a L’amore buio (2010), dove s’indagano le ferite che dall’infanzia ci si trascina dentro e che peseranno come macigni.
“Amo il cinema, più del teatro. Il cinema contiene un pieno comunicativo: è immagine in movimento, scrittura, parola, pittura, musica, teatro: è tutto!”. Dice con l’entusiasmo di un bambino.
Mi racconta che del teatro non sopporta la cosiddetta voce portata, quella dizione affettata, finta, utilizzata dagli attori professionisti, che distruggono la verità. “Vedi”, continua, “la comunicazione è fatta anche di bisbigli, di respiri, di espressività silenziose. Comm’ se fa… E allora, a chi mi dice che oggi gli attori di teatro sembrano fare cinema, rispondo che ben venga, che non ne vedo l’ora”.
Antonio Capuano ha uno sguardo autentico. Spesso disturba, ma a lui non importa, è un poeta. E i poeti sondano il mondo da un’angolazione obliqua, che per lo più provoca imbarazzo.
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