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Audronis Liuga omaggia Nekrošius

Aggiornamento: 9 mag 2021

Eimuntas, la solitudinee il tempo dello Zinco



di Audronis Liuga


Maggio 2019

Era una persona greve e spigolosa. Aveva una sua posizione forte, come egli stesso diceva, “riguardo all’anima, al corpo e a Dio”. I temi di tutte le sue creazioni presero origine proprio da questa posizione, che non cambiò mai, ma che con l’età e l’esperienza si arricchì di saggezza umana e rigore professionale. Nei suoi ultimi anni di vita questo rigore si tinse di un certo arcaismo, come fosse un biblico Padre rischiarato, però, dalla modestia e dal particolare umorismo peculiare solo a lui. Nell’arte come nella vita, sapeva rivelare verità fondamentali in modo semplice e preciso, che gli costavano, però, un gran rovello alla ricerca del modo più semplice e accurato per esprimerle. Diceva che nell’arte le uniche cose che contano sono l’idea e la propria testa. Tutto il resto non era poi così importante. Tra tutte le professioni creative, quella che più lo affascinava era quella dello scrittore. Apprezzava massimamente la buona letteratura. Era sinceramente convinto che il teatro non potesse eguagliarla. Sembra un paradosso, se pensiamo a come ha lavorato sulle opere letterarie durante tutta la sua vita. Eppure, tutte le idee per i suoi spettacoli sono scaturite da una profonda lettura delle opere letterarie e dalla ricerca di un linguaggio personale per trasporle.

Le sue qualità umane erano pari al suo talento, dote assai rara per una personalità creativa del suo calibro. Tutta la sua creazione è segnata dal tentativo di avvicinarsi a ciò che non conosciamo. Forse nessuno nel teatro è riuscito ad avvicinarvisi come lui. Nei primi spettacoli, questo suo sfiorare l’ignoto suscitava brividi di paura; nelle sue opere tarde generava, invece, un senso di riconciliazione e di nostalgia del calore umano. E invitava ad affrettarsi a provare quei semplici sentimenti e quelle sensazioni umane di cui sentiremo la mancanza una volta arrivati lì...

Era uno dei pochi grandi del teatro mondiale. Eppure, non si sentiva grande e si prendeva sagacemente gioco di ogni forma di venerazione. Conosceva il prezzo di appartenere alla casta dei grandi. E lo pagava egli stesso. Costantemente, senza riserve. Era solitario, ma non un eremita. La sua solitudine risiedeva nel rigore verso se stesso. Quel rigore che era una sorta di equivalente dell’orecchio assoluto. Perché, da pari a pari, poteva parlare solo con se stesso.

Forse è per questo che, specialmente nelle sue ultime opere, cercò un interlocutore tra autori della statura di Shakespeare, Camus, Dante, Mickiewicz, il Giobbe del Vecchio Testamento…

Cominciò a fare teatro senza saper come fare, creandosi una propria strada, diversa da tutti gli altri. E la seguì per tutta la vita, incoraggiando gli altri a fare lo stesso. A lavorare, come diceva, in modo “biologicamente puro”. Credeva che fosse possibile riuscirci e che ciò richiedesse solo un grande sforzo. E gli altri (di solito i giovani) lo ascoltavano coi volti accesi. Nonostante il suo essere solitario, sapeva accendere rapidamente i volti degli altri di una luce non ordinaria. E chiunque l’abbia provato, non lo dimenticherà per tutta la vita.

Nekrošius lasciò il Teatro della Gioventù (Jaunimo teatras) nel 1991. Qui aveva trascorso gli anni più belli della sua giovinezza e con gli spettacoli creati in questo teatro aveva girato il mondo. L’ultimo, Naso, apparve nell’aprile del 1991. Pochi mesi dopo i tragici eventi del 13 gennaio, con cui la Lituania, assetata di libertà, aveva riconquistato l’Indipendenza al prezzo delle vite umane.

Imparammo a pronunciare la dolce parola: libertà. Le sale del teatro si svuotavano, mentre la vita palpitava nelle strade e nelle piazze.

Poi vennero altri tempi. Mascherati, taciuti, ma pulsanti come una bomba a orologeria. Il 1986 segnò l’anno dell’incidente della centrale nucleare di Chernobyl, la più grande catastrofe che colpì l’umanità nella seconda metà del XX secolo. All’inizio del 1989 la sconfitta sovietica pose fine alla decennale guerra in Afghanistan, che aveva spazzato via le vite di decine di migliaia di soldati e di centinaia di migliaia di civili. L’Unione, in uno stato di collasso, cercava in tutti i modi di nascondere non solo le statistiche di entrambe le tragedie, ma anche la sua stessa agonia.

Dopo 26 anni, Nekrošius tornò nel suo teatro giovanile per creare uno dei suoi ultimi spettacoli, che raccontava di quegli avvenimenti di tre decenni prima. Di un’epoca sprofondata nell’oblio, ma le cui conseguenze sono visibili ancora oggi. Dopo aver sorvolato le vette della letteratura mondiale, egli si era rivolto al destino delle persone comuni. E aveva guardato al passato dalla prospettiva del presente.

La fine di un’epoca fu profetizzata dalle bare di zinco in cui i soldati morti in Afghanistan furono trasportati in patria. L’elemento chimico dello zinco, essenziale alla sopravvivenza della vita umana, divenne, durante la guerra in Afghanistan, il simbolo dell’estinguersi della vita. L’inizio e la fine racchiusi in una breve formula chimica – Zn. Mentre il vento del cambiamento (“wind of change”) aleggiava nelle strade e nelle piazze, il tempo dello zinco scorreva lento per le madri dei soldati uccisi in Afghanistan e per le mogli dei liquidatori di Chernobyl.

“Sono due le situazioni in cui l’uomo si eleva al di sopra della vita quotidiana e si dischiude alla sua essenza: quando è innamorato e quando sente la morte imminente. È allora che l’uomo esiste al limite delle sue facoltà”, queste le parole della scrittrice bielorussa, vincitrice del premio Nobel, Svetlana Aleksievič. Il suo mondo è fatto di “migliaia di voci, destini, esistenze e frammenti del nostro essere” che testimoniano non fatti storici ma la verità dei sentimenti.

Al centro dello spettacolo di Nekrošius, c’è proprio Svetlana Aleksievič. La sua personalità e il suo viaggio nel tempo. Immaginario e reale allo stesso tempo. Dai sogni d’infanzia alle vette professionali. È il viaggio di un’artista solitaria, che ha come unico scopo quello di sminare l’uomo come un campo minato. E dare testimonianza non dei fatti della storia, ma della verità dei sentimenti. Un viaggio paradossale - il sogno della vita di una scrittrice si realizza grazie alla descrizione di vite spezzate…

Ai tempi dello zinco, l’uomo ha perso. Derubati dell’idealismo giovanile dalla guerra, quelli che riuscirono a tornare alla vita si trovarono ai margini e degenerarono. Le bare di zinco celavano non solo i corpi mortificati degli “afghani”, ma anche la verità sul loro “eroismo”. I vivi rendevano le vittime eroi, denunciando nondimeno la tutt’altro che eroica verità della guerra. Esposta nel libro, questa verità rivelava l’insensatezza del sacrificio. E vi fu una deflagrazione; l’autrice venne condannata dagli eroi dei suoi stessi libri. Alla fine del libro Ragazzi di zinco, la scrittrice presenta la trascrizione documentaria stenografata del suo processo, avvenuto nella natale Bielorussia. Questo documento rivela un altro aspetto della sofferenza umana. Lo Stato può mutilare la coscienza delle persone, come la guerra i corpi dei morti. Eppure anche la verità può vacillare di fronte al dolore umano

Si dice che l’umanità si lascia alle spalle il passato ridendo. Ma è veramente possibile voltare le spalle? Si può ridere dei rituali insensati di uno Stato totalitario, che al giorno d’oggi assumono forme assurde. Non si ride invece quando nuove, insensate vittime ritornano nelle bare di zinco dai fronti delle guerre degli inizi del XXI secolo. Né quando le teste di artisti ribelli vengono appese ai cappi per aver contraddetto gli ideali dello Stato. Il passato si ripete come in un brutto sogno. Le risate allora sono altre. Macabre.

C’è ancora un altro tempo. Un tempo personale, che non dipende dai sistemi statali. Guardato con l’occhio del presente, questo tempo sarà per sempre “perduto” e nessuna esperienza servirà a colmarlo. Nekrošius si rivolge a quel tempo quando inizia a creare le proprie regole teatrali e a viaggiare fuori dalla rotta della drammaturgia letteraria. Quando scopre che a teatro i sentimenti e i pensieri sono più interessanti delle parole e che sul palco i mezzi più semplici possono mostrare ciò che è invisibile all’occhio. Quando, insieme agli attori, inizia a riempire la scena come la metafora della pagina vuota di un libro. Si volta a quel tempo senza illusioni e con il sorriso. Così può permettersi di portare sulla scena gli elefanti. Come il miracolo dell’infanzia, che accompagna l’intero viaggio e dà la forza di vivere. Come il proprio Amarcord. Alla fine rimarrà comunque il palco vuoto. Come le porte chiuse sul luogo del non ritorno. E la polvere radioattiva del teatro, attraverso la quale si farà strada una nuova vita.


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