Dopo “Aida” e “La Traviata”, l’opera di Puccini
di Paolo Popoli
Perché dipingerla soltanto come una vittima, quando Cio-Cio-San è un carattere complesso, una donna combattente e tanto romantica da cedere al dolore per l’incapacità sentimentale di Pinkerton? Ferzan Özpetek la vede così, rifugge dalle oleografie, scava nel personaggio. “La mia lettura è inedita? Lo credo, lo spero”, confessa il regista, non senza mostrare il doveroso rispetto per il capolavoro di Puccini. Dopo Aida e LaTraviata, Madama Butterfly è la sua terza regia lirica. Con questa, il cineasta torna al San Carlo. Non è un azzardo dirlo, ma ormai è anche un po’ napoletano. Il Lirico partenopeo, infatti, produsse la sua versione della Traviata nel 2012. Fu l’inaugurazione della stagione d’opera e l’allestimento, da incasso record, è stato più volte ripreso ed esportato all’estero. Özpetek lavorò a Napoli due mesi. “Il San Carlo è stata la mia porta d’ingresso nella città”, dice l’artista di Istanbul, che dopo quell’esperienza ha girato Napoli velata.
Il dramma verdiano con la storia di Alfredo e Violetta aveva le “scene da Oscar” di Dante Ferretti, i costumi di alta eleganza di Alessandro Lai e quel tocco özpetekiano che mostrava l’attrazione della Parigi di inizio Novecento (l’azione era stata posticipata di un secolo) per le turcherie e le mode mediorientali. Nei suoi lavori per il teatro d’opera, dunque, il regista ha finora inserito elementi della sua cultura d’origine e ha utilizzato spesso alcuni espedienti cinematografici. Sarà così anche in Butterfly? Il regista non ama svelare i dettagli dei suoi allestimenti. Prima di cominciare l’intervista, però, cita due esempi del suo modo di “fare la lirica”. E aggiunge: “L’opera avrebbe bisogno di essere comunicata di più; come si fa con il cinema”.
La nuova produzione del San Carlo di Madama Butterfly, con la direzione di Gabriele Ferro e la regia di Ferzan Özpetek, debutta il 16 aprile 2019.
Özpetek, riportiamo i due esempi di cui sopra?
“Quando ho diretto Aida, tutti sono rimasti impressionati dalla marcia trionfale in cui appare sul palco soltanto una bambina che scappa dalla guerra, ferita, che si guarda intorno e poi cade a terra. Allo stesso modo, anche l’ultimo atto della Traviata è forte, tra il gelo della stanza dove è ricoverata Violetta e il rosso del sangue che esplode per la tubercolosi. Sono scene che hanno colpito molto”.
Veniamo a Butterfly. Dopo La Traviata, ha scelto nuovamente un grande titolo della lirica con una grande eroina. C’è una preferenza per i personaggi femminili?
“L’opera è femminile, è fatta per un pubblico femminile. I personaggi maschili nella lirica certe volte sono dei tonti: capiscono in ritardo, hanno mille difetti. Invece, le donne sono quelle che fanno più cose, sono più intriganti e più intelligenti, e poi amano veramente e si sacrificano veramente. Dunque, non è una mia preferenza e/o una mia scelta. A mio modo di vedere, le opere con le eroine sono le più importanti”.
Concorda dunque con il mezzosoprano Cecilia Bartoli, quando dice che senza le grandi donne non si fanno grandi opere?
“D’accordissimo”.
Quale tipo di donna, e di amore, rappresenta per lei Madama Butterfly?
“Riascoltando e rivedendo l’opera, mi è parso che Cio-Cio-San fosse vista come ‘troppo vittima’, davvero troppo. Ho pensato, invece, che fosse un altro il modo più giusto per interpretarla. Lei non è solo vittima, cioè, è una che prende in mano le cose, s’innamora di Pinkerton, vuole andare in America, vuole cambiare vita e addirittura religione, e fa di tutto per farsi sposare, mentre lui non capisce proprio niente. Quando Pinkerton torna, Cio-Cio-San ha un’altra possibilità. Ma, a quel punto, non c’è più niente da fare e, così, cede, diventa folle. Lei può essere vista al tempo stesso come una che tradisce e che si ribella alla propria tradizione. Per me non è una vittima. La vedo come una specie di Hedda Gabler, una figura controversa. È una lettura inedita. Indovinata? Lo spero”.
Torna nel luogo dove ha girato Napoli velata ed è per la seconda volta al San Carlo. Cosa le manca ancora da scoprire della città?
“Da un punto di vista umano, Napoli è ogni giorno una scoperta. Prendi un taxi e fai un’esperienza nuova di amicizia. In alcune cose, sento di assomigliare a questa città, di rispecchiarmi molto in essa. È una sensazione che mi capita anche a Palermo, a Lecce e, in generale, nel Sud. Napoli, poi, mi parla dei misteri. Mi piace vedere come la città si stenda sulla ‘gonna’ del Vesuvio e da qui ne comprendo l’anomalo rapporto con ciò che è sotterraneo. A Napoli, infatti, si parla molto della morte; e la si prende in giro! Il mio rapporto è iniziato dalla porta d’ingresso principale, il San Carlo. Con La Traviata, la prima volta, ho scoperto a mano a mano l’arte del Regno di Napoli, il cibo. Con questo teatro ho un legame speciale, con il suo modo di lavorare serio, ma anche… diciamo non rigido, non scontato, per certi aspetti divertente. Bisogna entrare nei meccanismi. Io mi trovo bene”.
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