Orsini racconta il suo lungo rapporto con Pirandello, a 150 anni dalla nascita del drammaturgo di Girgenti
di Umberto Orsini
Gennaio 2016
Nel corso della mia attività teatrale mi sono incontrato più volte con l’opera di Luigi
Pirandello. Già nel 1954 quando tentai di essere ammesso all’Accademia Nazionale Silvio D’Amico mi presentai con un brano tratto da L’uomo dal fiore in bocca noto per essere un pezzo forte per gli aspiranti attori per quel suo misto di ironia e di tragedia che forniscono una tastiera abbastanza vasta sulla quale misurare il proprio presunto talento. Grazie a Pirandello fui dunque accettato all’Accademia. Non avevo mai riflettuto su questo episodio ed è solo adesso che me ne rendo conto. Certo è che la Compagnia dei giovani, che mi offrì la prima scrittura teatrale nel 1957, era anch’essa portatrice di un grande amore per Pirandello se si tiene conto dell’importante lavoro di rilettura di molti suoi testi compiuti da Giorgio De Lullo con la collaborazione di Romolo Valli e di Rossella Falk.
Memorabili furono i loro allestimenti del Il giuoco delle parti, L’amica delle mogli, Sei personaggi, Trovarsi e Enrico IV. Io non avevo partecipato a quei lavori perché furonosuccessivi alla mia appartenenza alla compagnia ma avevo mantenuto con quel gruppo dei rapporti talmente stretti che automaticamente dividevo le loro ricerche e, nel caso di Pirandello appunto, le loro conquiste.
Se dovessi dire oggi in che cosa consistesse la loro innovazione potrei dire
una sola parola: rispetto. Se poi si pensa alla cura che De Lullo metteva nell’uso della scenografia si può immaginare come i suoi allestimenti si staccassero di gran lunga da una tradizione di sciatteria che caratterizzava la maggior parte degli allestimenti di quell’epoca. Avendo avuto così buoni maestri mi sentivo in imbarazzo
quando, nel mio incarico di Direttore Artistico del Teatro Eliseo di Roma, decisi di
mettere in scena Non si sa come con la regia di Gabriele Lavia. Reputo quello uno
dei lavori più complessi e più interessanti del nostro autore. E certamente uno dei
più difficili da far arrivare al pubblico per la complessità dei monologhi di Romeo Daddi, il protagonista, che si accusa di delitti avvenuti contro la propria volontà
perché dettati dalla forza travolgente della natura che, precedendo l’umano, ne detta le leggi. Vi è in questo lavoro un monologo famosissimo, quello cosiddetto della “Lucertola” in cui il protagonista si accusa di un delitto avvenuto tanti anni prima, come in sogno, a danno di un suo coetaneo che crudelmente aveva seviziato una lucertola appunto. Un grande pezzo per attori. Lo avevano certamente recitato almeno una decina d’attori famosi prima di me, ne avevo sentito anche delle registrazioni, erano quasi tutti più bravi di me, obbiettivamente, erano logici e ragionatori come voleva Pirandello. Pregai Lavia di non sottolineare quel passaggio, di farlo passare inosservato, di evitarmi una gara di bravura con gli attori che mi avevano preceduto. Invece Gabriele ne fece un pezzo memorabile perché mi fece dire l’intero monologo dietro una lente di ingrandimento che allargava e deformava il mio viso dando l’impressione di un primo piano cinematografico.
Quello che era stato scritto per essere ben recitato qui diventava sofferenza e disagio, con il sudore e le lacrime che, ingigantite, davano all’immagine qualcosa di paragonabile ai dipinti di Francis Bacon. Fu un successo memorabile e raggiunsi con Non si sa come le 250 repliche.
Il mio secondo approccio con Pirandello fu una decina d’anni più tardi e nell’occasione scelsi Il piacere dell’onestà. Affidai la regia a Luca De Filippo che precedentemente aveva lavorato solo per la sua compagnia su testi prevalentemente di Eduardo. Fu una scelta che mi aveva suggerito Luca Ronconi con cui stavo provando L’uomo difficile di Hofmannsthal. Lo trovai un suggerimento prezioso (doveva essere uno spettacolo per la stagione successiva) perché la pratica di storie eduardiane, ambientate per lo più in luoghi del sud, potevano influire ed arricchire l’idea di messa in scena. De Filippo fu sorpreso e nello stesso tempo felice che gli si chiedesse di fare una regia lontano dalla sua compagnia. Dalla nostra collaborazione nacque un buon spettacolo con Valentina Sperlì, Toni Bertorelli e Rita Savagnone. C’era, fra gli altri, Nando Paone quasi debuttante e l’aiuto regista era Vincenzo Salemme. Lavorare con Luca era un gran divertimento perché si lavorava lo stretto necessario. Io sono abituato ad imparare le parti a memoria prima di iniziare le prove e nei giorni dell’allestimento alle parole,
che già conosco, aggiungo le intonazioni che mi vengono dalla situazione scenica,
dalle indicazioni del direttore e da altri elementi che nel momento dello studio non
avrei potuto prevedere. Luca era abituato, come quasi tutti gli attori della sua compagnia, ad usare l’aiuto del suggeritore ed imparare lentamente la parte a memoria tanto da impossessarsene interamente verso l’ultima settimana di prove. Io non mi sono mai abituato all’uso del suggeritore perché lo sentivo come una distrazione.
Il risultato pratico fu che dopo una settimana di prove Luca aveva esaurito quelle
poche idee di movimenti che la commedia prevedeva, io che ero il protagonista sapevo la parte, gli altri attori per starmi dietro avevano fatto uno sforzo per imparare le loro battute e saremmo potuti andare in scena tranquillamente dopo una settimana.
La tortura fu aspettare il giorno della prima perché durante le prove, non essendoci molti suggerimenti da dare, in un paio d’ore avevamo finito il nostro compito e allora era tutto un chiedersi che facciamo?
La ripetiamo? Andiamoci a prendere un bel caffè? Quella battuta se vuoi la puoi
fare tutta seduta, o tutta in piedi, o metà seduta e metà in piedi, e potresti anche invertire queste posizioni secondo gli umori della serata. Povero Luca, gli ho voluto
tanto bene, ma in realtà lo avevo spiazzato perché gli avevo negato il piacere di costruire il mio ruolo pezzo per pezzo perché così come lo facevo gli andava bene e non riusciva a darmi suggerimenti per progredire.
Succede, ma ripeto fu un bell’incontro che ci portò in seguito ad avere un’altra
esperienza insieme in una commedia di Eduardo che era L’arte della commedia
che Luca diresse mirabilmente.
Una terza esperienza con Pirandello fu nel ʼ95 con Il giuoco delle parti con la regia di Lavia. Allestimento molto ricco e intelligente. L’avevamo ambientato negli anni della prima guerra mondiale e avevamo caratterizzato i personaggi che circondavano Leone Gala in chiave militaresca coll’intento di chiarire al pubblico di oggi il senso dei codici d’onore che sono alla base della vicenda e che nell’immaginario collettivo appartengono più ad un mondo di militari che a un mondo di borghesi. L’interprete femminile era Laura Marinoni e la messa in scena faceva di tutto per allontanare il modello ormai mitico ed intoccabile dall’edizione della Compagnia dei Giovani. Devo dire che in parte ci riuscimmo perché l’avevamo resa più vicina a Strindberg che a Pirandello e secondo me quello era una chiave che rendeva la vicenda più nera e meno sofisticata di quanto lo fosse l’edizione che ci aveva preceduti.
Anni dopo, vale a dire tre anni fa, mi venne in mente di riallestire Il giuoco delle parti e partii da una considerazione molto semplice: che cosa sarà successo a Leone Gala (il protagonista della commedia) quando, subito dopo il calare del sipario, si ritrova sì vivo e vegeto e anche pieno di buon appetito visto che l’ultima immagine che Pirandello ci ha mostrato di lui è quella in cui decapita un uovo sodo ed immerge il cucchiaino per berne il contenuto? Il mio regista Roberto Valerio ed io abbiamo immaginato che questo personaggio, ai di là dei sottili sofismi con cui ha imbastito la tragica conclusione della vicenda, non doveva sentirsi poi tanto in pace con se stesso.
Sì, aveva punito moglie ed amante, ma non aveva evitato un assassinio. Partendo
da questa premessa e tenuto conto della mia età abbiamo immaginato il protagonista chiuso in una possibile casa di cura, certamente ossessionato dalla storia della quale è stato artefice e protagonista e che fatalmente mescola passato e presente consentendo a noi interpreti di raccontare la vicenda da un punto di vista particolare che sono nient’altro che gli occhi del protagonista che si sommano agli occhi di Pirandello.
Tradimento? Forse. Approfondimento? Sicuramente. Necessario e giusto correggere Pirandello? No, né necessario né giusto. Ma possibile e con grandi risultati visto il coinvolgimento del pubblico ad uno spettacolo certamente ben confezionato e del quale vado molto orgoglioso e che ogni sera mi dà il sospetto se non la certezza di aver reso un buon servizio al nostro amato autore.
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