L’attore napoletano torna sul palcoscenico con l’adattamento del libro di Romain Gary
Di Stefano Prestisimone
Mentre giganteggia sul grande schermo con due film di gran spessore, Ariaferma e Il bambino nascosto, Silvio Orlando non molla di un millimetro il teatro, amore inscalfibile. Con la sua casa di produzione “Cardellino” (che gestisce con la moglie, l’attrice Maria Laura Rondanini), porta in scena allo Stabile di Napoli dall’8 al 19 dicembre un lavoro molto particolare tratto dal libro di Romain Gary datato 1975 e rilanciato in Italia nel 2005 da Neri Pozza, La vita davanti a sé. Adattato per il cinema nel 1977 dal regista israeliano Moshé Mizrahi per una produzione francese, il remake italiano arriva nel 2020 con Sofia Loren protagonista, diretta dal figlio Edoardo Ponti.
Orlando ci conduce nelle pagine del libro con leggerezza e ironia diventando, con naturalezza, il piccolo protagonista nel suo dramma.
È la storia di Momò, bimbo di dieci anni che vive nel quartiere multietnico parigino di Belleville nella pensione di Madame Rosa, un’anziana ex prostituta ebrea, malata, superstite dell’Olocausto, che sbarca il lunario prendendosi cura degli “incidenti sul lavoro” delle colleghe più giovani. La storia è raccontata in prima persona dal turbolento bambino, “figlio di puttana” come egli stesso si definisce. Riduzione e regia sono di Orlando, sul palco assieme all’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre diretta da Simone Campa, sulle scene di Roberto Crea.
Silvio Orlando, ci introduce in questa storia?
“Al centro della vicenda, un bimbo arabo che vive in un piccolo orfanotrofio clandestino nella Parigi degli anni ’70 gestito da una vecchia ebrea, grassa, malandata fisicamente. Poi c’è l’aspetto emotivo. L’angoscia di un bambino terrorizzato dalla vita che ha davanti sé. Momò non ha punti di riferimento, né protezioni, fino a quando incontra Madame Rosa. L’allestimento descrive il rapporto straziante di amore e di amicizia tra il ragazzino e la donna, le loro affinità, i conflitti e il reciproco istinto di protezione”.
Lei porta sul palco la voce di Momò?
“Esattamente, è lui che parla, che racconta, attraverso una lente grandangolare ingigantita, la vita dal suo punto di osservazione in questa Parigi intesa come una sorta di giungla popolata da vari tipi di animali, anche pericolosi. Insomma, non è un orfano patetico alla Dickens, ma un piccolo teppista che cerca di trovare il proprio posto nel mondo”.
La scenografia a cosa è ispirata?
“Crea, geniale scenografo napoletano, ha immaginato una casa in bilico, come un palazzo che si tiene in piedi per miracolo e con un equilibrio molto precario, a simboleggiare la vita del nostro Momò. La musica live della band è di tradizione mediorientale, con strumenti particolari e suggestivi come la kora”.
I temi che mette in risalto?
“Sono tanti, si parla di immigrazione, ad esempio, che la Francia ha affrontato trenta anni prima rispetto a noi, a causa delle colonie francesi. Ma anche di problematiche che ancor’oggi ci arrovellano, del come far convivere popoli, razze, religioni e etnie diverse. Il tutto è trasferito su un piano umano fortemente emotivo. Entro nella pelle di questo bambino che si interroga sulle sue mancanze, sulla necessità e sull’assenza di un riferimento affettivo. L’ho spostato su questo piano, sulla privazione della figura materna che egli vive. Un elemento universale quello del rapporto madre-figlio, mai risolto del tutto per carenza o per troppo affetto. E lo spettacolo conduce il pubblico in un percorso che lo vede coinvolto dal punto di vista carnale”.
Dopo oltre un anno e mezzo di drammatica chiusura, il teatro ha riaperto i battenti al 100% della capienza. Come vede questa ripartenza?
“Sento di essere abbastanza ottimista. Ho buone sensazioni, ho fatto già qualche replica e ho sentito una forza da pre-Covid. Il pubblico mi pare abbia allontanato le paure, ci siamo liberati in questi 90 minuti dalle ansie, dalle angosce. Lo spettacolo è un po’ un abbraccio, cerchiamo di creare con il pubblico un rapporto affettuoso. Credo che questo sia anche un periodo di svolta, bisogna presentare rappresentazioni che siano coinvolgenti, che siano di gradimento prima di tutto alla platea. Bisogna fare uno sforzo in più e non dare niente per scontato, capire cosa serve in questo momento. Cercando di riconquistare quelli che già c’erano, potremmo portare a teatro anche chi non ci veniva. Tendiamo, a volte, a scaricare sul pubblico le colpe della crisi di presenze, ma forse dietro c’è la responsabilità di chi gli spettacoli li pensa e li propone”.
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