Il regista: “Porto in scena l’incomunicabilità familiare, la vita di periferia e soprattutto la possibilità di imparare a guardarsi meglio allo specchio. Specchio come strumento di verità, di realtà”.
Di Andrea Fiorillo
In scena il 30 giugno, per il Campania Teatro Festival, nella sezione Osservatorio, il nuovo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Sergio Del Prete “Sconosciuto. In attesa di rinascita”. Nella splendida cornice del Giardino Paesaggistico di Porta Miano, il testo è la storia di un uomo al centro della scena, al centro della storia, al centro del mondo, ma non al centro di se stesso.
Del Prete, da dove nasce l’idea del testo?
Dall’esigenza di mettersi al centro della propria vita, del proprio mondo. Dall’esigenza di porsi domande dopo una vita in cerca di risposte dagli altri. Testo metafora che racconta la storia di un uomo simbolo, che viene a sapere da una banale discussione tra i suoi genitori, che la madre, prima che lui nascesse, ha subìto un aborto. La notizia lo sconvolge a tal punto da fargli nascere domande sulla propria esistenza, incolpando il fratello di averlo fatto nascere, con la sua morte. Il fratello mai nato è un pretesto per sviluppare temi come l’incomunicabilità familiare, la vita di periferia e soprattutto la possibilità di imparare a guardarsi meglio allo specchio. Specchio come strumento di verità, di realtà. Un uomo simbolo, perché la periferia e l’incomunicabilità che lui ha subìto vengono messi in scena come stati d’animo più che come contesti fisici. Stati d’animo che si possono ritrovare sia nei quartieri e nelle province abbandonate e ferme a formalità devastanti, che nei salotti borghesi in cui si possono ritrovare dinamiche per nulla lontane dal silenzio che uccide.
L’incontro con Marta, una massaggiatrice prostituta, un’anima nascosta, ai limiti della società, gli fa capire che nonostante tutto c’è sempre qualcosa per cui lottare, vivere, amare. Per lei sono i suoi figli ad esempio “Nun può essere sulo merda. ʼE figli miei nun so’ merda, so’ aria. ʼNce sta sempe nu poco d’aria fresca.
Il testo sottolinea anche la forza delle donne, raccontando la storia di Marta, appunto, e di sua madre che vede non solo come genitrice, ma come donna. Una donna che ha subito ma è riuscita in qualche modo a reagire ad una vita che l’ha costretta ad essere succube di un marito lontano dalle parole dolci, di cui tutti abbiamo bisogno.
Sentirsi esclusi, non voluti, inadatti, inadeguati. Il Teatro può essere un porto sicuro, un riparo dove l’accettazione di se stessi ci salva la vita?
Assolutamente sì. Io sono nato a Napoli ma cresciuto in provincia, incontrando il teatro per caso con un laboratorio teatrale tenuto nell’Istituto Tecnico Commerciale che ho frequentato. Una scuola in cui ho trascorso anni non facili, ma dove ho trovato la chiave di volta: il teatro. In provincia non è sempre facile trovare una propria identità perché ti scontri con delle dinamiche umane che ti limitano. In provincia o ti salvi da solo o ti fai schiacciare in compagnia. Il teatro mi ha permesso di dire, io sono questo, io sono qualcosa. Mi ha permesso di formarmi come uomo, altro che la leva militare!
Il teatro ti insegna a vivere, ti insegna il rispetto per le gerarchie considerandosi alla pari, ti insegna che da solo non vai da nessuna parte, che hai sempre bisogno di qualcuno e tu puoi essere importante per gli altri, e tutto questo senza imparare ad impugnare un fucile. Più che un riparo, il teatro è qualcosa che ti fa uscire allo scoperto.
Un rischio grosso nel rifiuto è diventare sconosciuti a se stessi. Che cosa significa? E quanto questo oggi è un problema così diffuso ma anche sul quale c’è così poca attenzione?
Il problema, ovviamente a mio avviso, è vedere l’essere sconosciuti a se stessi come un problema. In realtà sconoscersi, concetto che sviluppo nel mio spettacolo, deve essere una grande opportunità. Considerarsi uno sconosciuto può essere la possibilità di sentirsi liberi verso se stessi, senza farsi schiacciare da dinamiche che assorbono le nostre energie. È un problema avere così tanta paura di ciò che non si conosce secondo me, compresi noi stessi. Oggi si tende a dover essere perfetti, cool, alla moda, si tende a dover essere inevitabilmente sicuri, e se non lo sei fai finta di esserlo, altrimenti ti senti nessuno. Ma perché? Viviamo il tempo degli odiosi “Ciao ragazzi...” delle storie Instagram, convinti che agli altri possa interessare cosa abbiamo fatto stamattina appena svegli. Il sentirsi sconosciuti, agli altri e a se stessi, deve essere un’opportunità per cercare, per sviluppare, per essere curiosi e conoscersi e conoscere meglio.
“Bisognerebbe avere il coraggio dei ragazzi che si lanciano dagli scogli per essere accolti”, con queste tue parole mi piacerebbe chiederti se per te questo spettacolo è quel salto?
Ogni spettacolo può essere un salto, ogni spettacolo può essere un tuffo. Questo spettacolo rappresenta esattamente la mia visione del teatro, improntata sull’essenzialità della scena, dell’attore, della storia. In scena amo creare tanto, dal poco. È la “povertà” scenica che ti mette veramente alla prova, che ti dà la possibilità di creare e affrontare temi senza gettare fumo negli occhi, senza orpelli, senza paillette. Questa frase del mio testo che hai riportato nella tua domanda vuole anche essere un invito a me stesso in primis, ma a chi mi darà il piacere di vedere lo spettacolo, ad avere quella incoscienza dei ragazzi che si lanciano dagli scogli e percepire il mare, il mare non solo fisico, ma il mare che abbiamo dentro, il mare quanto mezzo portatore di libertà, come quella libertà che può accoglierci, in cui si sta veramente bene.
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