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Ruggero Cappuccio su Nekrosius

Aggiornamento: 9 mag 2021

Eimuntas, maestro silenzioso che amava Napoli



di Lorenzo Cerri

"Camminando per i vicoli mi diceva: ‘Sto ridendo quanto mai avrei immaginato’. Sì, il suo spirito si metteva in letizia quando arrivava qui”. Ruggero Cappuccio ricorda Eimuntas Nekrosius, morto la notte del 20 novembre 2019, a un giorno dai 66 anni. E può farlo perché lo ha voluto al Napoli Teatro Festival, di cui è direttore. Nel 2016 e nel 2017, l’illustre regista lituano, ha tenuto due laboratori per giovani attori. E a giugno avrebbe dovuto mettere in scena “Edipo a Colono”, nella riscrittura che ne fece anni fa Cappuccio, pubblicata da Einaudi.

Cappuccio, racconti il suo Nekrosius.

“Il nostro rapporto cominciò 25 anni fa, come spettatore dei suoi spettacoli, dalla forza rivoluzionaria. A volte erano molto lunghi, e in una lingua lontana, eppure nessuno ne usciva affaticato”.

Ecco, come si fa a stare per ore su un palcoscenico senza annoiare?

“Con l’arte. Io condividevo con lui l’idea che al pubblico si parla attraverso i sensi oltre che con il cervello. Il suo teatro non veicolava messaggi cerebrali, ma comunicazioni sensoriali; produceva immagini. A un bambino possiamo dire: sii felice. Oppure, gli sorridiamo comunicando gioia, ed egli si predisporrà alla gioia. Nekrosius ha parlato alla parte fanciulla di noi, pur trattando temi altissimi. Se dovessi rintracciare un artista che lo evoca, mi sovviene Kantor”.. Ricordo ‘Amleto’, Macbeth’, ‘Otello’, ‘L’idiota’, ‘Caligola’… ne seguivi uno e sentivi che era parte di un affresco più vasto, di cui, l’anno prima, avevi visto un altro pezzo”.

Racconti la sua esperienza al festival.

“Appena nominato direttore, fu la prima persona cui pensai di affidare i laboratori di formazione. Ho sempre detestato le scuole a senso unico, e Nekrosius è un artista che non ha mai pensato esista un metodo pedagogico adatto a tutti. Gli attori sono creature speciali, materia sempre diversa. Egli lavorava con loro maieuticamente. Ognuno ha un tipo di energia e vuole modalità differenti per liberarla”.

Quali furono gli argomenti che scelse?

Nel primo anno la bielorussa Svetlana Aleksievic, Nobel per la Letteratura nel 2015. Nekrosius lavorò sui suoi testi legati alla tragedia di Chernobyl. L’anno scorso, invece, si dedicò al ‘Riccardo II’ di Shakespeare. Con gli attori si comportava usando dolcezza ed equilibrio, cercando di liberare le energie senza metodi confezionati. E riusciva a scoprire in loro dinamiche energetiche che essi stessi ignoravano”.

Poi, ecco “Edipo a Colono”.

“Il primo testo cui si pensò era ‘La Scienza nuova’ di Vico, ma il progetto era troppo complesso. Quindi parlammo di uno Shakespeare. Infine, di un classico della grecità. L’idea era intrigante; la tragedia non era un terreno da lui molto battuto. Un giorno mi chiamò: ‘Ma tu hai riscritto ‘Edipo a Colono’; ho visto il libro della Einaudi’, mi disse. Lo aveva colpito l’ambientazione novecentesca, in un tempo sospeso, lontano dagli accademismi e dalla filologia che non amava. Se lo fece tradurre in lituano. Lo lesse e mi chiamò: ‘Facciamolo’”.

Cosa accadrà ora?

Non so. È trascorso troppo poco tempo, e il dispiacere brucia ancora. Per ricordarlo, però, il prossimo festival gli dedicherà una iniziativa. Potrebbe anche essere ‘Edipo a Colono’, ma avremmo bisogno di un regista della sua statura”.

Tra le virtù di Nekrosius c’erano la visionarietà e il lavoro sugli attori.

“Il rapporto tra testo e attori è simile a quello tra partitura e musica. Il testo non è il teatro e uno spartito cambia se lo suonano i Berliner o i solisti di Roccasecca. Nekrosius sapeva scavare in tutti i nuclei di significato e di suono della drammaturgia. Alcuni registi lavorano sulla parola; egli riusciva a tradurre quei significati in forma visiva. Aggiungo un particolare umano: amavo molto la sua riservatezza, i silenzi anche se, quando veniva a Napoli, trascorreva il periodo più sorridente dell’anno”.

Gli piaceva la città.

“Amava la sua temperatura psichica. Sentiva l’istinto non codificato, la stessa energia anarchica emanata dai suoi spettacoli. Trovava i napoletani più liberati di altri attori su cui lavorava”.

Qualcosa in città lo attirò particolarmente?

“Le sette opere di Misericordia. Entrammo nel silenzio mentre fuori, nel vicolo, c’era un delirio che evocava Caravaggio. Riflettemmo che quello era il posto migliore in cui il quadro potesse stare… Era naturale che un uomo silenzioso come lui amasse l’opposto. Anche Tomasi di Lampedusa, creatura riservatissima, se ne andava a scrivere ‘Il gattopardo’ nei bar affollati di Palermo”.


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