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Pierfrancesco Favino

Aggiornamento: 9 mag 2021

Lo straniero di Koltès? È uno di noi

“La notte poco prima delle foreste”. A 30 anni dalla morte del drammaturgo francese



di Pierfrancesco Favino

Marzo 2019


Mi sono imbattuto in La notte poco prima delle foreste di Bernard-Marie Koltès un giorno lontano; mi sono fermato ad ascoltarlo senza poter andar via e da quel momento vive con me e io con lui. Mi appartiene, anche se ancora non so bene il perché. È uno straniero che parla in queste pagine. Non sono io, la sua vita non è la mia eppure mi perdo nelle sue parole e mi ci ritrovo come se lo fosse. Il suo racconto mi porta in strade che non ho camminato, in luoghi che non ho visitato. Come un prestigiatore fa comparire storie di donne, di angeli incontrati per caso, di violenze e di paura, di ciò che non conosciamo. Forse è anche a questo che serve il teatro e mi auguro di riuscire a portarvi dove lui porta me. Penso che l’esclusione raccontata da Koltès approfitti di una condizione particolare, riconoscibile negli esclusi delle banlieu francesi, per farne un simbolo di diversità universale. Certo, riconoscerne un’attualità così viva, personalmente, non conforta.

In realtà il monologo non parla di migranti, ma di estraneità, del sentirsi straniero in un Paese. È un discorso che vale anche per tutti i ragazzi italiani che sono costretti ad andare a lavorare all’estero per trovare opportunità: è importante sentire di appartenere a qualcosa, invece succede a tutti di sentirsi esclusi. È un racconto che parla del lavoro e delle difficoltà che viviamo tutti i giorni; scritto nel 1977, rimane ancora attualissimo.

In realtà, faccio molta fatica a dividermi: questo testo è intimo, così come lo è il cinema che faccio, che si tratti di drammi o commedie, ma contemporaneamente intravedo anche, nella scrittura di questo drammaturgo francese, una leggerezza che fa diventare La notte poco prima delle foreste una sorta di “stand up drama”, in cui leggere anche i miei cambiamenti attraverso il tempo. Non amo l’abitudine a rinchiudere ciò che fa un attore in schemi prefissi e mi spaventa la parola “impegno”, per me la cosa importante è il tipo di energia e non la qualità. Qui si oscilla tra la sensazione di estraneità e il desiderio di condividere. La dinamica di fingere di essere qualcun altro riguarda la nostra professione, e tutta l’umanità, così come la necessità di essere capiti. Lo straniero di Koltès è uno di noi, un espediente narrativo che ci porta altrove, tra donne, angeli, violenza e paura.

Koltès parla anche di amore. Stare con qualcuno e diventare una cosa sola è un bisogno che conosco. Un desiderio che fa parte di me. L’amore di cui parla è pansessuale, riguarda qualsiasi tipo di unione. Due corpi che quando s’incontrano diventano materia, si fondono fino a non sapere dove finisce l’uno e dove comincia l’altro. Io credo che sia così.

Siamo tutti chiusi dentro confini e la nostra giornata spesso è fatta di transenne. Siamo costretti davvero? Non so dove comincia la nostra scelta o se è così senza che abbiamo scelto nulla. Però, contro i confini si può avere più coraggio

Mi dicono che quello di Koltès sia un testo impegnativo e mi viene in mente un maestro. Il grande Orazio Costa ci insegnava la passione, la dedizione e il senso del lavoro. Sono uno che ama fare le cose con una certa precisione. Quando si opera in ambito artistico si pensa che tutto nasca dal cielo, dall’intuizione artistica. Non è così. C’è tanto lavoro, c’è tanta tecnica, un impegno continuo che deve durare tutta la vita.

Detto ciò, credo non si debba limitare la libertà dello spettatore con l’imposizione del mio punto di vista, della mia vanità intellettuale. Lo spettatore non deve andare via pensando che io sia più intelligente di lui o quanto mi sia dovuto preparare. Occorre essere comunicativi al massimo delle nostre potenzialità, ma lasciare al pubblico la sua visione personale.

Questo spettacolo e il recente premio “Le Maschere d’Oro” ricevuto a Napoli sono dedicati a Melina Balsamo, senza cui tutto questo non sarebbe stato possibile.


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