“Ho costruito un ritmo che non si ferma mai, anche durante il cambio di scena”
di Anita Curci
“Avevo già sperimentato il teatro attraverso la lirica. Teatralizzare un film mi preoccupava, perché potevo correre il rischio di non riuscire nella resa dei contenuti. Invece, poi, mi sono trovato a vivere una bella esperienza, che mi ha fatto pure divertire”. È così che il regista, sceneggiatore e scrittore, Ferzan Ozpetek, racconta del suo esordio sulla scena con Mine vaganti, ispirato al film del 2009 scritto insieme a Ivan Cotroneo, con cui gli furono riconosciuti importanti premi. Lo spettacolo è prodotto da Nuovo Teatro di Marco Balsamo e vede tra gli interpreti Francesco Pannofino, Paola Minaccioni, Arturo Muselli, Giorgio Marchesi e Caterina Vertova. Dopo aver debuttato a febbraio all’Ambra Jovinelli, proseguirà con la tournée in date da stabilire.
Ozpetek, dopo il recente successo al cinema di Napoli velata e La dea fortuna, come mai la scelta di passare alla prosa?
“Quando raccontai la trama di Mine vaganti al produttore cinematografico Domenico Procacci, ero in Sardegna, lui rimase colpito dalla storia, aggiungendo che sarebbe potuta diventare un’operazione entusiasmante anche a teatro. Oggi, tormentato da Marco Balsamo, e lo dico con riconoscenza e affetto, quella prospettiva si realizza con un impianto che lascia intatto lo spirito della pellicola. In verità, ci pensavo da tempo, dopo che mi erano arrivate richieste per i diritti dalla Francia e da Broadway, dove ne avrebbero fatto un musical. Ma nulla di fatto”.
I tempi del teatro sono diversi però da quelli del cinema...
“Ho dovuto trasportare in palcoscenico i principi del film, lavorando sui sentimenti, sulle risate, sui momenti malinconici e inserendo più parole per esprimere i significati trasmessi invece dai primi piani. Ho agito per sottrazioni, lasciando quell’essenziale divertente, attraente, intrigante. Sono stato obbligato a sacrificare parti che mi piacevano, ma che non erano funzionali, e ne ho introdotte di nuove per dare rinnovata forza all’allestimento. Per esempio, gli amici gay erano tre, sono diventati due. Nel cinema, l’omosessualità la sottolinei senza eccedere, qui invece è diverso. È stato necessario inventarsi la scena di uno spettacolino per marcare, ottenendone una caricatura, quelle caratteristiche che prima arrivavano alla gente con maggiore disinvoltura. Il teatro può permettersi il lusso dei silenzi solo se sono esilaranti, altrimenti vanno riempiti con molte frasi e situazioni forti. Perciò è stato importante bilanciare gli equilibri tra i vari elementi”.
Da quale idea è partito?
“Sono partito dal fatto che a teatro capita di annoiarmi spesso. Non volevo prima di tutto uno spettacolo lento e questo, qui, non succede. Poi, se piace o no, è un altro discorso. Ho costruito un ritmo che non si ferma mai, anche durante il cambio di scena. Devo per questo dare il merito a Luigi Ferrigno, che ha immaginato dei movimenti con i tendaggi, sostenuti dai giochi di luce di Pasquale Mari. Anche i costumi sgargianti di Alessandro Lai fanno la loro parte. Ho realizzato uno spettacolo che andrei a vedere, come faccio con i film. Giro opere che mi piacerebbe guardare al cinema; alla fine è questo il senso del mio lavoro”.
Nell’ambientazione cosa è cambiato?
“Non c’è più Lecce, lì una storia del genere oggi non avrebbe senso. L’ho trasportata in un paese tipo Gragnano, di quella dimensione lì, dove la notizia che il figlio del proprietario di un pastificio è gay correrebbe di voce in voce, diventando la chiacchiera dell’intera comunità. Rimane la famiglia Cantone con le sue radicate tradizioni culturali alto borghesi e un padre desideroso di lasciare in eredità la direzione dell’azienda ai due figli”.
Per i film ha sempre voluto un cast corale, anche qui?
“Sì, in scena abbiamo 11 attori. Ma la coralità la prendo anche dal pubblico, che è parte integrante dello spettacolo. La platea diventa la piazza del paese. Gli attori entrano e escono, ma hanno continuamente un rapporto con gli spettatori”.
Che differenza c’è tra fare cinema e fare teatro, anche emotiva oltre che pratica?
“Intanto nei chili, perché a teatro si ingrassa. Mangi dopo le Il di sera... Parliamo di due modi diversi e, tra i due, preferisco il cinema, che è la mia vita. A teatro ci si stanca parecchio. Una scena va ripetuta spesso, fino a quando l’interprete non trova l’espressione che serve. Non la fissi mai. Con il film, dopo massimo due, tre prove, registri e fermi. La scena rimane lì per sempre e non la ripeti più, altrimenti rischi di perdere la spontaneità dell’attore. Sono due modi diversi per tirare fuori significati e emozioni”.
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Foto: di Romolo Eucalitto
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