Il regista statunitense stravolge la tragedia di Sofocle
di Anita Curci
La rilettura dell’Edipo re di Soflocle, la tragedia greca rappresentata per la prima volta nel 429 a. C. al Teatro di Dioniso di Atene, e oggi firmata da Robert Wilson, è un progetto partito nel 2016 e proseguito attraverso laboratori tra Long Island e la Lombardia; ma, soprattutto, è nato per l’Olimpico, il teatro che Andrea Palladio realizzò a Vicenza, tra il 1580 e il 1585, ispirandosi ad archetipi di romana memoria e che fu inaugurato proprio con quest’opera.
Allestimento site specific, l’Oedipus di Wilson, riproposto senza problemi a Pompei, al Teatro Grande, nell’ambito della seconda edizione di Pompeii Theatrum Mundi, lo scorso mese di luglio, arriva al Mercadante di Napoli dal 9 al 20 gennaio 2019 con qualche variazione.
“In sostanza l’allestimento sarà lo stesso, – precisa il regista texano – ma in uno spazio del tutto diverso, i movimenti degli attori devono essere ripensati. Il peso del gesto muta completamente passando da un vasto luogo all’aperto a uno più intimo. Può essere anche identico, ma quel che cambia è la sua misura, che deve adeguarsi all’ambiente in cui prende vita. Qui l’attore deve proiettare voce e presenza al fondale del palcoscenico. A Pompei lo spazio era tanto ampio e aperto da prevedere una differente proiezione spazio-tempo. Il Mercadante è molto più piccolo e, dunque, essa sarà un’altra, perché un altro è il teatro”. Robert Wilson, ma tutti lo chiamano Bob, ha stravolto l’originaria struttura drammaturgica del testo per farne un allestimento che abbatte ogni confine tra teatro, danza, musica e arte visiva, pur lasciando il riferimento a una successione cronologica dei fatti, narrati da due testimoni, degli aedi, gli unici a parlare in scena, qui interpretati da Mariano Rigillo e Angela Winkler, illustre attrice del Berliner Ensemble. Tutte le altre voci provengono da fuori campo. E le parole non illustrano quel che accade in palcoscenico.
“Ho creato scene che non esistono in Sofocle; – spiega Wilson – il matrimonio tra Edipo e Giocasta è una danza nuziale, che non evoca la tradizione greca, ma quella di certe tribù aborigene, ed è per me il cuore di questo spettacolo. Gli attori che danno corpo ai due personaggi sono un greco e una messicana”. La visione multietnica è un altro segno distintivo dell’artista: “Ho usato l’italiano, quello delle traduzioni di Ettore Romagnoli del ’26 e di Orsatto Giustiniani del 1585 proprio per l’Edipo che inaugurò l’Olimpico; poi il greco, antico e moderno; l’inglese, il tedesco, il francese, tanti idiomi per affrontare un mito che attraversa le culture”.
E in che modo la visione multietnica dell’arte che ha Wilson si è dipanata lungo lo svolgersi dell’allestimento? “Ho cercato di adattarla a ogni spazio.
All’Olimpico è diventata un dialogo con le architetture e le forme del Palladio, come se la vita statica divenisse vita reale. Il cuore della pièce è proprio la coreografia ispirata al matrimonio rituale aborigeno”.
Lo spettacolo rimane tuttavia strutturato in modo classico: cinque parti e un prologo, tutte caratterizzate da materiali specifici come assi di legno, rami secchi, lastre di metallo, rami verdi, sedie pieghevoli, grandi fogli di carta catramata. Il tema centrale della storia è sempre Edipo e l’oscurità.
“Egli vuol far luce sull’assassinio di Laio per liberare Tebe dalla pestilenza. Ma sarà capace di sopportare la luce quando si rifletterà su di lui? Sarà in grado di confrontarsi con il passato, con le proprie origini? Come il veggente cieco Tiresia sentenzia: fino a che Edipo avrà la vista, sarà cieco. Quando inizierà a vedere la verità, si accecherà.
Il punto resta il solito: siamo noi in grado oggi di guardare in faccia la verità?”.
Confrontarsi con un mito è impresa ardua, ed Edipo re lo è. Che cos’è un mito, secondo Wilson, e cosa quest’opera può insegnare all’uomo contemporaneo?
“È come quel che si scorge in un batter di palpebre – risponde Bob – uno sguardo interiore equilibrato da una visione esteriore”.
Le musiche, e qui il rimando va agli autori Dickie Landry e Kinan Azmeh, sono parte integrante di quella visione multietnica, il frutto di qualcosa che il regista ha ascoltato e qualcosa che ha vissuto come esperienza personale.
“La musica di Kinan affonda le radici nell’antica tradizione siriana; quella di Landry è più contemporanea e ha origine in America, si chiama jazz e blues”, aggiunge. E conclude: “In questi giorni sto provando Turadont di Puccini al Teatro Real di Madrid. La sua musica è molto diversa da quelle di Kinan e Landry. Quest’opera è la più violenta tra tutte quelle che ho diretto e molto più contemporanea di Oedipus”.
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