Matthew Lenton firma la trasposizione e la regia del celebre romanzo
di Anita Curci
Torna a Napoli il regista britannico Matthew Lenton che, dal 27 novembre al 2 dicembre 2018, porta in scena al Bellini una delle opere più significative e celebri di George Orwell, 1984, prodotto da Emilia Romagna Teatro, CSS Teatro Stabile di innovazione del FVG, con Luca Carboni, Eleonora Giovanardi, Nicole Guerzoni, Stefano Agostino Moretti, Aurora Peres, Mario Pirrello, Andrea Volpetti. Le scene sono di Guia Buzzi, i costumi di Gianluca Sbicca, le musiche di Mark Melville e i video di Riccardo Frati
Lenton, perché questo testo e come lo rappresenta?
“Claudio Longhi, direttore dell’Emilia Romagna Teatro, era interessato a una storia classica che riflettesse il fatto che viviamo in ‘tempi interessanti’, citando Slavoj Zizek. Abbiamo valutato una serie di possibilità, ma entrambi ci siamo accorti che 1984 era quella che, più che mai, mette in discussione la nostra relazione con la ‘verità’. Come regista, il romanzo mi ha affascinato perché, pur fornendo una storia e una struttura concreta, mi ha permesso di essere creativo. Non volevo lavorare con l’adattamento di qualcun altro, ma costruirne uno personale. Desideravo entrare nel libro, lavorare con gli attori, scoprire l’ambiente e creare il mio mondo. Quindi ci siamo io e Orwell”.
Il messaggio che vuol trasmettere, e perché ora?
“Il messaggio è una preoccupazione per il pubblico. E riguarda la verità, la memoria, l’importanza del passato in un momento in cui la natura di vecchie idee sta evolvendo/cambiando/degradando, a seconda del punto di vista”.
Il fenomeno del controllo sistematico sulla popolazione predetto nel romanzo 70 anni fa si è avverato pienamente. Qual è il meccanismo che lo ha generato? E le conseguenze di questo stato sulla società?
“Non è diventato realtà nel modo in cui Orwell l’ha immaginato. Noi – almeno nell’Occidente – non siamo apparentemente controllati dallo Stato nel modo in cui lo è Winston. Egli si sveglia ogni giorno sapendo che ci sono cose che non può fare e sa esattamente come si deve comportare. Non credo che questa sia la nostra esperienza. Forse siamo controllati in altri modi più insidiosi o furtivi? Forse.
A differenza di Winston, non sappiamo di esserlo. È più o meno spaventoso, ma possiamo ‘goderci’ le nostre vite in un modo che Winston non può. Più interessante per me è ciò che sacrifichiamo moralmente per poterlo fare; ciò che ciascuno di noi sacrifica per sentirsi a proprio agio. In Gran Bretagna, e in particolare nella Gran Bretagna in cui Orwell ha scritto 1984, la ‘classe’ è un fattore influente. La classe a cui appartieni può definire le tue opportunità. È facile dire che nell’Occidente (e diversamente da Winston) possiamo mangiare del buon cibo, bere vino, andare più o meno dove vogliamo, e così via. Ma più si è poveri, meno è possibile. Quindi il fattore economico o ‘classe’ è importante. Le persone sono controllate economicamente. La maggior parte della gente che va a teatro ha del buon cibo e può bere vino. Quindi è molto più fortunata di Winston. Ed è probabilmente più come il gerarca O’Brien”.
Quanto è diverso il suo 1984 da quello di Orwell?
“È riconoscibile la storia raccontata dall’autore. Ci sono alcune cose escluse e una o due inventate. Ma spero che mantenga lo spirito originale che, nella lettura, può essere stimolante, opprimente, commovente e scioccante. Voglio che la platea lo sperimenti in modo viscerale”.
In quale luogo e in quale periodo l’ha ambientato?
“In Oceania, esattamente come descritto da Orwell”.
Cosa vede lo spettatore in palcoscenico?
“Un mondo fluido in cui spazio e real-tà cambiano continuamente. Credo che il pubblico vedrà molta azione e bellezza visiva”.
Come sono le scene e che ruolo ha la musica?
“Fanno parte entrambe della storia tanto quanto le parole, la luce, il suono e le interpretazioni. A volte lo scenario è presente, a volte no. C’è molta oscurità e molta luce. Sorpresa e trasformazione. Una costante colonna sonora punteggia l’azione in tutto lo spettacolo, e crea l’atmosfera del mondo in cui vive Winston”.
Perché la scelta di un cast tutto italiano?
“Gli attori sono stati proposti dal tea-tro. Ne ho incontrati di bravi, avrei voluto sceglierne di più, ma ho potuto prenderne solo sette, come da accordi. La scelta è caduta su quelli che pensavo avrebbero funzionato meglio in un’ensemble, mettendo insieme le personalità compatibili tra loro”.
Qual è la sua modalità di lavoro?
“Il modo in cui mi piace lavorare consiste nel costruire lo spettacolo nella sala prove, invece di avere copione e personaggi già pronti. C’è molto da giocare, improvvisare, sperimentare. All’inizio si genera caos e incertezza, ma poi il progetto viene fuori.
Gli attori devono anche essere creativi, fare proposte, stimolarmi. In questo modo emergono tante possibilità. Implicita nella domanda è un’interessante provocazione sul linguaggio.
Non parlo italiano. Posso creare il ‘mondo’ per lo spettacolo. Posso dettare la maniera in cui quel mondo si comporta, si muove e si trasforma. Posso elevare alcune idee a cui sono interessato. Posso imporre la mia ‘visione’. Ma quando si tratta della sfumatura dell’italiano parlato, è quasi impossibile per me, quindi devo fidarmi degli attori e della guida di altri che traducono.
In verità, è molto più difficile per me dirigere le sfumature della recitazione come farei nella mia lingua. È una frustrazione, devo imparare l’italiano!”.
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