Lavia torna con Pirandello nei panni di Ciampa
di Rita Felerico
Nella commedia Il berretto a sonagli di Pirandello, in scena al Teatro Diana di Napoli dal 9 al 20 febbraio, ritroveremo molto di Gabriele Lavia, tracce autobiografiche, insegnamenti tratti da esperienze di regia, il genio dell’attore. Regista e interprete di Ciampa, il ‘pupo’ scrivano che difende fino allo spasimo la sua falsa onorabilità, Lavia racconta delle società, quella di ieri e di oggi, pronte a nascondere le verità spendendosi dietro vuoti ideali. Lo racconta con un linguaggio originale. Con Federica Di Martino sulle scene di Alessandro Camera. Musiche di Antonio Di Pofi. Effimera Produzioni in collaborazione con Diana OR.I.S.
“L’opera fu scritta da Pirandello nel 1916 in siciliano per Angelo Musco a cui la commedia non piacque e con la quale non ebbe successo. La regia era di Nino Martoglio. Poi Pirandello la tradusse in Italiano. Qui integro le due versioni di questo specchio di una umanità che fonda la convivenza civile sulla menzogna”.
Lavia, la lingua dei protagonisti è un intreccio fra l’italiano e il dialetto siciliano; una mescolanza fra i due testi della commedia (uno in siciliano l’altro in italiano) scritti dallo stesso Pirandello. Perché?
“Un pasticcio, è vero, eppure non molto lontano dalla realtà. Un esempio: sono nato a Milano, ma sono in realtà un siciliano per origine e sentimento; nella mia famiglia si parlava – nei momenti più intensi della vita familiare – un siciliano italianizzato, una lingua quasi carnevalesca. È la parlata siciliana italianizzata in generale a rendere burocratico e giuridico il sentimento, ovvero la sua comprensibilità”.
Un uso delle parole che sottolinea uno dei temi centrali della commedia: il nascondimento della verità.
“Ognuno ha la sua verità; la verità in sé è inarrivabile, non appartiene all’uomo, piuttosto alla bestia, e più volte Pirandello lo ha ribadito. In L’uomo, la bestia e la virtù suggerisce ‘orecchie di scimmia’, ‘facce da porco’ per i suoi personaggi. Qui, senza le ‘imbestiature’, ci troviamo all’interno di una commedia che nel rappresentare una società malata di menzogna e non potendo dare spazio a nessuna verità, a nessuna umanità, si esprime attraverso la follia”.
La follia rompe il finto perbenismo, svela la maschera del ‘pupo’ che siamo, ci spoglia.
“La follia è un tema dell’autobiografia pirandelliana – sappiamo della moglie – e in una maniera o nell’altra il genio di Agrigento inserisce persone, cose, accadimenti della sua vita nelle opere, come la figura della cammarera, ispirata a Maria Stella che serviva, lei bigotta e fervente credente, nella casa degli atei Pirandello, cercando di salvare dalle loro grinfie ’u picciriddu”.
Ogni volta che si va in scena è un’esperienza che si condivide con gli spettatori. Contribuisce il teatro pirandelliano a determinare una maggiore consapevolezza?
“Pirandello non suggerisce soluzioni, lascia piuttosto domande, e le ultime battute sono quelle che sempre tirano le fila del senso sparso all’interno del testo. L’epilogo della commedia non credo possa essere quello da lui suggerito. Lo avrebbe scritto così, oggi? Lei si comporterebbe come Beatrice? Lascerebbe che tutto possa tornare ‘normale’, come se non fosse accaduto nulla, per confermare una realtà rivelatasi menzognera? Nelle novelle potrei ritrovare risposte rispetto alle scelte di donna Beatrice. Ma non ho ancora deciso il finale, nuove idee frullano nella testa”.
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