L’attore, drammaturgo e regista ripropone Occhi gettati. Il monologo diventa corale dopo trentacinque anni
di Elide Apice
Da Scannasurice a Luparella e Patria puttana a Lacarmèn, Raccogliere & Bruciare e molto altro, non è facile parlare di uno spettacolo di Enzo Moscato che è teatro di anima e emozioni. È così anche per Occhi gettati che segna il ritorno sulla scena dopo il lockdown. Il testo sembra cucito addosso agli interpreti Benedetto Casillo, Giuseppe Affinito, Salvatore Chiantone, Tonia Filomena, Amelia Longobardi, Anita Mosca, Emilio Massa, Antonio Polito. Al Ghirelli di Salerno il 19 e 20 marzo e a Sala Assoli di Napoli dal 24 al 27 marzo e dal 31 marzo al 3 aprile.
Moscato, Occhi gettati nasce 35 anni fa come monologo e diventa polifonia. Perché questa scelta?
“È passato del tempo, le cose si guardano con una diversa percezione. Il teatro cambia come cambiamo tutti noi. Quando l’ho scritto nell’86 erano altri tempi, facevo teatro da soli sei anni e mi dovevo sobbarcare di tutta la scrittura che producevo. Il monologo fu scelta necessaria. Oggi mi è sembrato il caso di farlo insieme ad altri come se da una soggettività si passasse a una intersoggettività”.
Cosa intende per occhi gettati?
“Ci sono diversi significati: possono essere gli occhi gettati su una cosa, su una pagina, una scrittura, oppure gli occhi gettati come nelle effigi. Si pensi a Santa Lucia, che ha i suoi occhi in un piattino e guarda con occhi nuovi. Come sempre succede, con me le cose hanno più significati che si abbracciano l’uno con l’altro che è poi un’immagine barocca, visto che i critici mi hanno affibbiato l’etichetta di autore barocco”.
Cosa resta della Napoli di 35 anni fa? E se ci sono dei cambiamenti, questi sono positivi o segnano un degrado di Napoli?
“La storia del degrado è una delle effigi con cui è stata sempre dipinta Napoli. Non saprei cosa significa degrado, ho iniziato in anni in cui la città aveva subito il terremoto, era piena di posti sbarrati e c’erano molti luoghi comuni. Non vorrei imbrigliare la mia drammaturgia nella città di Napoli. È ovvio che le devo molto come lingua, come antropologia, in realtà è per me pretesto per partire da un punto e allontanarmene, e in qualche modo fare di Napoli una sorta di metafora universale. Oggi mi sembra una città uguale alle altre, accomunata dalla lingua comune dello spavento, della chiusura, alla ricerca delle stesse sciocche felicità. Poi si deve scavare molto in fondo per trovare delle unicità”.
Ci spiega la sua ossessione per Napoli?
“Un’ossessione che è punto di partenza da cui poi mi allontano, un pretesto perché si deve parlare di qualcosa che ci circonda. Abito a Napoli e la narro, poi me ne allontano cercando di non restare chiuso in una dimensione che poi etichetta. È proprio questo il teatro”.
Lei usa una lingua che oscilla tra musicalità diverse, ci spiega la sua scelta?
“La mia lingua è napoletana ma è anche cibernetica, è lingua multiversatile, nel mio teatro ho usato molte lingue perché sono attratto dall’aspetto sonoro più che per l’aspetto significante. Quando scrivo un testo, se una frase mi viene in napoletano tale resta, ma se credo di usare una qualunque altra lingua, la uso. Ecco perché stare nei ranghi di quella che si diceva “Nuova drammaturgia napoletana” di Ruccello, di Santanelli è un po’ discutibile. Come origine ci siamo, ma come sviluppo e dinamica bisogna confrontarsi con 40 anni di teatro e di cambiamenti”.
A quale dei personaggi si sente maggiormente legato?
“Per me è difficile parlare di personaggi anche se agli inizi, quando ho scritto i testi più canonicamente teatrali, li ho indicati. Nel tempo mi sono allontanato dalla strettoia del personaggio perché quando faccio teatro, sono più cose contemporaneamente, è difficile separare il drammaturgo dall’attore, dal cantante, dallo scrittore. Parlerei di simboli, di icone, di metonimie”.
Lei ha un unico percorso narrativo che si sviluppa in più forme espressive…
“È difficile parlar di me, c’è sempre qualcosa che sfugge. Ho avuto tante svolte, tanti cambiamenti, sono, però, principalmente uno scrittore prestato al teatro”.
La narrazione drammaturgica è strettamente legata alla scelta musicale?
“Il cantare è una cosa legata molto alla scrittura. La mia scrittura è musicabile, concepita e elaborata con una sua logica interna di melodia o di dissimmetria, a volte stridente, altre contrappuntiva. Non a caso ho fatto cinque dischi, ciò vuol dire che la dimensione musicale non è altro che il mio scrivere con la voce a riprova che la scrittura drammaturgica è una scrittura musicoversabile”.
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