Ho cercato di dare delle emozioni al pubblico attraverso il rapporto privilegiato tra spazio e parola
di Maurizio Scaparro
Aprile 2016
Vedo all’orizzonte un traguardo: mezzo secolo di palcoscenico. Cinquant’anni di teatro che mi inducono a qualche riflessione; per esempio sul fatto che in questi ultimi anni ho tentato di presentare classici visti con gli occhi di un contemporaneo e testi contemporanei riletti con quelli dei classici, da Amleto a Aspettando Godot. Come Shakespeare, così anche Don Chisciotte, Cyrano o La venexiana sono stati tutti proposti per essere osservati con gli occhi dell’oggi; mentre l’ultimo titolo che ho messo in scena, il capolavoro di Beckett, evoca un classico del Shakespeare. Un’altra caratteristica del mio teatro, che unisce tutti gli esempi appena elencati è quella di evitare il dettaglio naturalistico nella scenografia. Ora, non dico che si tratta di un errore; diciamo che è una scelta rispettabile, ma non è la mia. Io sono per le scene disadorne, e più passano gli anni, più mi viene voglia di asciugare il superfluo.
Con questo mio modo di fare ho cercato di dare delle emozioni al pubblico attraverso il rapporto privilegiato tra spazio e parola. Se elimini quel che non serve e ti concentri sulla parola e sullo spazio, elementi magici del teatro di tutti i tempi, tu lavori per approfondire il significato e la fantasia dell’autore, del regista e dell’attore. Nel famoso allestimento con Pino Micol, quando Cyrano muore, alza la mano verso il cielo; e dal cielo cala una luna di legno. In quel momento hai una immagine poetica della luna e della mano, un’aspirazione all’infinito, dove tutti vedono che l’astro è di legno. E così deve essere. Questo è il mio modo di fare teatro.
Che cosa intendo dire? Che il teatro, oggi più che mai, ha bisogno di essere fatto con passione e professionalità. Poi, vuole innanzitutto uno spazio, una voce e un pubblico di uno o diecimila persone. La sua straordinaria forza è questa. Non è un caso che resista da tremila anni a tutte le grandi conquiste dell’umanità. Perché sempre più forte di esse resta una persona che dice a un’altra: “C’era una volta”.
E il “c’era una volta” di noi europei, di noi italiani, è tanto più importante oggi nei grandi sommovimenti dell’umanità e in quelli del nostro Mediterraneo. Lo dico pensando ovviamente a quella funzione che l’Italia - e Napoli - possono avere in questo periodo di così radicali trasformazioni. E qui mi viene in mente un titolo di Viviani, Scalo marittimo, che si può erigere a simbolo drammaturgico di una città, costante punto di approdo e di scambio per chi parte e per chi resta.
Napoli capitale della scena può diffondere la luce del teatro, la sua nobile e preziosa antichità, la sua lezione di civiltà a un mondo che sta dimenticando il sapere. Il suo è un grido, una invocazione, un appello per quell’Europa della cultura, della pace, della temperanza, del vivere in armonia e intelligenza che ogni giorno è schiacciata, invece, dall’Europa delle banche e del profitto.
Questa è la sfida che devono affrontare oggi le nuove generazioni per assicurare un futuro al vecchio continente e un po’ a tutta la civiltà occidentale. Ecco perché sono convinto che Godot simboleggi la nostra vita oggi; è l’attesa di qualcosa che non arriva mai. Come l’Europa della cultura e del Mediterraneo, appunto. Egli viene dal secolo passato, ma non smette di rivolgersi a noi, uomini del nuovo millennio, che si dimenano, confusi e incerti, senza sapere se sono clown incisi nel solco del loro destino, aspettando chi non giungerà. Lo dice Pozzo in una celebre battuta, casualmente evocando la fulminante poesia di Quasimodo: “Il giorno splende un istante, ed è subito notte “.
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