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Mariano Rigillo

Aggiornamento: 12 mag 2021

In occasione degli 80 anni di vita e i 60 di carriera



di Mariano Rigillo

Novembre 2019

Il Teatro che amo è naturalmente quello che ho fatto e così amerò quello che ancora spero di fare. Vengo da una grande scuola: l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica intitolata a Silvio d’Amico, importante studioso e critico del ‘900, che tenacemente la volle e riuscì ad ottenerla nel 1936. Qui ho incontrato il mio primo grande maestro: Orazio Costa. Da lui ho appreso, ad esempio, che il primo dato fondamentale con cui un aspirante attore deve confrontarsi è la conoscenza di sé, delle possibilità espressive del proprio corpo e della propria voce. L’insegnamento della tecnica di base, per esplorare al meglio le nostre capacità, è fondamentale per realizzare quello che ciascun personaggio, che andremo poi a rappresentare, ci chiederà di essere. Mi piace credere all’attore metamorfico, capace cioè di potersi calare in personaggi molto diversi così da dare del suo essere interprete un’immagine poliedrica e, magari, di volta in volta sorprendente. Il nostro lavoro, che ho sempre voluto accostare al gioco, diventa così più divertente e vario, aggettivi ovviamente usati in ampio senso culturale. Ancora: noi napoletani abbiamo la fortuna di poter essere attori bilingue nel vero senso del termine, cioè di poter recitare sia in lingua italiana sia in quella napoletana. Uno dei pochissimi vantaggi derivati dall’Unità d’Italia! Come direttore della scuola del Teatro Nazionale di Napoli, è questa una caratteristica che porto avanti con meticolosa attenzione. E mi viene da pensare al mio personale rapporto con il Teatro Napoletano, che pur essendo stato da me frequentato da sempre, ad esempio dal tempo in cui ogni anno si allestiva nella Villa Comunale di Napoli un teatro estivo denominato Teatro del Popolo, definizione che trovavo bella e nient’affatto retorica, si è poi saldamente rafforzato grazie all’incontro con Peppino Patroni Griffi, amico carissimo e altro mio importante maestro. A lui il merito di avermi insegnato a leggere Raffaele Viviani, guidandomi nell’interpretazione di alcuni testi: Toledo di notte, La musica dei ciechi, Caffè di notte e giorno, Scalo marittimo. Forte di quanto appreso da lui, volli poi personalmente provare a metterlo in scena. Così fui regista e interprete di Pescatori, Zingari e Osteria di Campagna, testi tra i più belli di questo nostro grande autore. I risultati sia di critica che di pubblico furono ottimi tanto che alla mia regia di Pescatori venne assegnato nel 1982 il Premio della Critica Italiana. Certo, volgendo lo sguardo all’indietro sono tanti i testi che ho interpretato. Sono sul palcoscenico esattamente da sessant’anni. Nella seconda metà degli anni 50 nacque a Napoli il primo Teatro Stabile napoletano del Dopoguerra, diretto allora da Giulio Pacuvio, importante regista e studioso del teatro antico. Nella Primavera del 1959 Pacuvio scritturò Tatiana Pavlova, famosa attrice e regista russa, per mettere in scena un lavoro di Cesare Vico Lodovici dal titolo Ruota. C’era necessità però di infoltire la compagnia con elementi giovani e si pensò di fare riferimento al C. U. T. (Centro Universitario Teatrale) di cui anch’io allora facevo parte. Fui scelto, e fu così che debuttai in una vera e propria compagnia teatrale, sostenendo tanti piccoli ruoli insieme ai miei compagni di C.U.T. Tra questi c’erano Bruno Cirino e Stefano Satta Flores, nomi certamente noti a chi si occupò di spettacolo in quegli anni e nei successivi. Noi tre insieme, nel settembre dello stesso anno, partimmo per Roma a frequentare, Bruno ed io, l’Accademia Silvio d’Amico e Stefano il Centro Sperimentale di Cinematografia. Da allora sono trascorsi giusto sessant’anni. A pensarci sono veramente tanti. Per l’occasione il sindaco Luigi De Magistris e l’assessore alla Cultura Nino Daniele, con il concorso dell’amico Salvo d’Ortona , hanno voluto dedicarmi una festa. Ho pensato così ad una sorta di serata d’onore che mi è piaciuto intitolare “Il mio cuore è nel Sud!’: Questo precario Sud che fino oggi mi ha accompagnato nella vita artistica e sempre in modo sorprendentemente positivo (si pensi ad esempio al meraviglioso Masaniello di Elvio Porta e Armando Pugliese). E proprio stamane nel corso della conferenza stampa di presentazione di questa serata mi è stato chiesto, da un caro amico giornalista, cosa ho appreso in questi 60 anni di teatro che possa servire alle nuove generazioni. Mi è venuto in mente il Re Lear di Shakespeare che interpretai nel 2016, con un bel successo di pubblico e di critica. Mi sarebbe tanto piaciuto portarlo in tournée per l’Italia, ma traversie di diversa natura (economico/ organizzative...) lo impedirono e ancora oggi sono in attesa che questo sogno si possa realizzare. In una suggestiva scena notturna tra Lear e il “matto”, questi si rivolge al re dicendogli: “Mio re, non dovevi diventare vecchio senza prima diventare saggio”: Come Lear non sa replicare al Matto, così io non ho saputo come rispondere. Mi sono limitato ad invitare l’amico giornalista ad un caffè da prendere insieme tra qualche giorno per parlarne con ragionata consapevolezza. Improvvisamente ora mi accorgo che sto quasi facendo un’autobiografia. Mi fermo e poso la penna. Da domani, magari, ne parlerò a qualche editore.


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