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Lavia alle prese con l’ultimo Pirandello

“Noi tra abietti giganti”. “Un testo che racconta la morte del teatro. L’opera è incompiuta, ma è magnifica proprio così”.




di Stefano Prestisimone

È l’opera definitiva, anche se incompiuta, del drammaturgo di Girgenti. E, per questo, è assurta a “ultimo dei miti teatrali”. I Giganti della montagna rappresenta il testamento artistico di Luigi Pirandello e secondo Gabriele Lavia, che la riporta in scena dal 15 gennaio 2020 al Mercadante con un gruppo infinito di interpreti (23), “costituisce il punto più alto e la sintesi di tutta la poetica pirandelliana”.

La storia è quella di una compagnia di attori girovaghi, guidata dalla contessa Ilse, che non hanno trovato accoglienza, nelle sale dei comuni teatri, per rappresentare La favola del figlio cambiato (dello stesso Pirandello). Il gruppo giunge così a una villa che sembra abbandonata. I suoi strani e misteriosi abitanti, il mago Cotrone (Lavia) e gli Scalognati, cercano dapprima di allontanarli, poi li accolgono, e Cotrone cerca di convincere la contessa a recitare per gli ospiti della villa la sua “favola”, una storia scritta per lei da un giovane poeta che, innamorato e da lei respinto, si è ucciso. Ma alla contessa Ilse non basta. Allora, Cotrone le suggerisce di andare a rappresentare l’opera dinanzi ai giganti, potenti signori occupati nella realizzazione di grandi opere, uomini rozzi ma dall’immenso potere.

Lavia, in sintesi, che cosa racconta I giganti della montagna?

“Il mito della morte della poesia. E del teatro... In realtà, Pirandello avrebbe voluto raccontarla, ma siccome la morte ha preso lui per primo, purtroppo, l’atto con la morte del teatro non l’ha mai scritto. E questa incompiutezza, forse per necessità, forse per la provvidenza del caso, ci dice che il teatro non è morto e non morirà ... Anche se ce la mettono tutta”.

Dopo Sei personaggi in cerca d’autore e L’uomo dal fiore in bocca, con I giganti della montagna lei completa una trilogia pirandelliana?

“No, la scelta è del tutto casuale. Non ricordavo neppure di averne messi in scena tre, e non è questo il senso dell’operazione perché, spostando ci sul piano filosofico, non è l’uomo che decide il senso della propria esistenza. Piuttosto, è la nostra esistenza che ci possiede. Tutto è successo... così”.

Parliamo di teatro nel teatro, una tecnica che Pirandello usa anche in altre opere.

“È una caratteristica che può essere osservata in tanti testi, anche nell’Edipo Re, ad esempio. In questo caso, Pirandello parla del teatro che non si può fare a teatro. Il mago Cotrone, che in qualche modo dissimula la figura dell’autore, dice: ‘Perché volete andare in mezzo agli uomini a recitare? Restiamo qua, tra di noi, nel mondo della fantasia, nel mondo dei sogni, della magia, delle idee. È inutile cercare spettatori che, tanto, non possono capire’. Ilse, però, risponde no: l’arte deve essere portata tra gli uomini. Come finisce davvero la storia non lo sapremo mai”.

Per l’incompiutezza dell’opera?

“Il fatto che egli non l’abbia terminata è una sventura per noi teatranti. Ma, forse, è il destino ad aver voluto che Pirandello non completasse la drammaturgia con l’atto in cui fisicamente la poesia e il teatro sono uccisi dai giganti. La leggenda dice che aveva intenzione di scriverlo. E uso la parola “leggenda” perché nessuno può dirlo con certezza. Secondo il figlio Stefano, il padre gli dettò la trama dell’ultimo atto che egli avrebbe, poi, scritto l’indomani. Ed è quella che oggi completa l’opera. Però, noi sappiamo che era ben conscio di non riuscire a superare la notte. Quindi, non so se egli avesse davvero avuto l’intenzione di mettere su carta quel terzo atto, oppure avesse voluto in qualche modo consolare il figlio, preoccupato per le sue condizioni. lo mi sono fermato al secondo atto. L’opera è magnifica così, senza bisogno di aggiungere altro. Il fatto che non si vedano i giganti, è bellissimo. Perché resta solo la paura del loro furioso galoppo”.

Un galoppo che è fortemente simbolico?

“È un galoppo che apparteneva anche a Ibsen, a Molière, a Shakespeare, e che distrugge tutto. I giganti ci sono sempre stati, attraversano la storia dell’umanità, e l’uomo ha il dovere di resistere alloro orrore. Se posso dirla tutta, la nostra è un’epoca di abietti giganti. Se dovesse farlo oggi, Pirandello scriverebbe I giganti abietti della montagna”.


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