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La verità che si dipana in un gioco di matrioske

Nicole, donna e madre nell’opera di Coletta e Totàro. La specificità del pensiero

femminile passando per Lacan e Freud



Di Paolo Coletta

Mio figlio sa chi sono, in scena a dicembre, il 15 alla Sala Pasolini di Salerno e dal 16 al 19 al Nuovo di Napoli, raccoglie alcuni propositi a me cari. Una drammaturgia condivisa (ma non è una novità) con Silvana Totàro, filosofa; la costruzione di un personaggio femminile attraente e divisivo; il rapporto tra religione e trascendenza; l’indagine e la messa in crisi della retorica del rapporto madre/figlio; il tempo presente dell’azione scenica che insegue quello del passato fino a confondersi con esso; e soprattutto un’atmosfera noir difficilmente rinunciabile quando un argomento e il suo intreccio la consentono.

In questo caso, un figlio misteriosamente scomparso e un vecchio amico di lei probabilmente complice o causa di questa circostanza, sono elementi che possono facilmente produrre la suspense necessaria a un racconto teatrale di questo genere.

Tuttavia, se mi si chiedono le ragioni della scrittura di Mio figlio sa chi sono non sono sicuro di saper rispondere. Un testo teatrale nasce per mille motivi. Molto spesso si scrive per un interprete o un gruppo di interpreti (ed è molto più facile se l’interprete è Gea Martire). Oppure si scrive per dar sfogo a una necessità personale. Ancora si scrive per soldi, per mestiere, per inerzia. O si scrive per partecipare a un concorso di scrittura, magari per non ottenere alcun risultato e sentirsi finalmente incompresi.

In realtà, si scrive anche per “riscrivere” ciò che si è già scritto, altre volte e in forme diverse. Forse quest’ultimo è il presupposto che più mi riguarda.

L’esplorazione dell’eretico femminino mi appassiona da sempre, ed è, probabilmente, il tema più ricorrente nelle storie che ho affrontato sia con la parola parlata che con quella cantata.

La psicoanalisi e la filosofia classica han-no prodotto una cultura apparentemente valida per tutti, ma in realtà portatrice di valori maschilisti.

Con Silvana Totàro è stato entusiasmante trasferire in un personaggio immaginario – quello di Nicole, donna e madre – foss’anche solo il riverbero della specificità e dell’autonomia del pensiero femminile, a partire dall’attacco da parte di un gruppo di pensatrici della scuola freudiana di Parigi, fondata da Jacques Lacan, alla stessa teoria psicanalitica di Freud (secondo cui la sessualità femminile è interpretata come una mancanza, quasi una nostalgia, di quella maschile).

È nata così, Nicole: donna favolosa, autodeterminata, in un certo senso felice.

Il suo progetto, a partire dall’infanzia, di aderire a una chiarissima idea di sé, funziona e la conduce a una condizione esistenziale che sembra averle riservato solo successo e soddisfazioni.

Nel progetto di vita di Nicole c’è posto anche per un matrimonio perfetto e l’accettazione quasi casuale di un figlio (“perché no?”). E sarà proprio da quel figlio, tuttavia, che proverranno una serie di spiacevoli incrinature del proprio disegno esistenziale.

A partire dalla crisi del ragazzo, vittima di una grave forma di tossicodipendenza, Nicole ripercorre con noi il proprio romanzo famigliare puntellato dalla fiducia e dall’incoraggiamento senza condizioni o giudizio dell’amico d’infanzia Vincent.

Ora, a tre giorni dalla morte del figlio sopravvenuta proprio quando lei era in casa per fargli visita, Nicole torna per rivedere Vincent, svanito nel nulla dalla tragica scomparsa del ragazzo. L’uomo tarda ad arrivare, così, come in un gioco di matrioske, la verità dei fatti accaduti la notte di tre giorni prima si dipana mescolando passato, presente e futuro, costringendo Nicole a ricomporre i pezzi del puzzle di una vita intera. In un’implacabile ricostruzione di eventi misteriosamente corrispondenti a quelli della Sacra Famiglia, la donna precipita a poco a poco in una spirale spazio-temporale in cui niente è più ciò che sembra.

Come una tigre in gabbia, Nicole porta tenacemente avanti la sua sfida identitaria di donna prima che di madre, rivelando una dopo l’altra le stazioni dell’autodistruzione del figlio, fino all’estrema decisione di “lasciarlo andare” al suo destino.

Quando tutto sembra ricondursi all’ordine iniziale, quando nessuno avrebbe potuto farle dubitare della presenza sicura e affidabile di Vincent, Nicole si ritroverà a fare i conti con una verità sconvolgente.

Siamo liberi di stabilire chi abbia ragione e chi no, chi sia dalla parte del torto e chi si trovi nel giusto, dove finisca la verità e cominci l’eresia. Ma mi auguro che, ancora una volta, il Teatro possa allenarci a sospendere il giudizio e magari a farci interrogare sul perché alcune parole ci risuonino dentro più di altre.


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