Binasco sulle orme del drammaturgo rumeno. “Non mi era mai sembrato l’autore giusto per me. Ma ci ho visto la possibilità di far emergere qualcosa che non fosse poi così incredibile”
di Stefano Prestisimone
Due vecchi in una sala disadorna in attesa di ospiti e di un oratore, depositario di una rivelazione delirante. Intorno, figure evanescenti e sedie accatastate. Eugène Ionesco definì una farsa tragica Le sedie, che scrisse nel 1952 ma così clamorosamente vicina al nostro presente.
Lo spettacolo, al Bellini di Napoli dal 29 marzo al 3 aprile, è prodotto dallo Stabile di Torino e firmato da Valerio Binasco, regista e attore piemontese, che dirige Michele Di Mauro e Federica Fracassi in una commedia (con le scene e le luci di Nicolas Bovey e i costumi di Alessio Rosati) i cui tratti assurdi si dissolvono in un vuoto carico di parole.
Binasco, ci spiega la scelta di tornare al drammaturgo rumeno e al suo ‘teatro dell’assurdo’ alcuni anni dopo aver rappresentato La lezione? Cosa l’affascina di questo autore?
“Non mi era mai sembrato l’autore giusto per me. Il fatto è che in entrambi i lavori ho notato che c’era la possibilità di disinnescare quel meccanismo obbligatorio che sembra essere la naturale caratteristica del teatro dell’assurdo, e far emergere invece qualcosa di non così assurdo. Cioè che c’era qualcosa in Le sedie, ad esempio, di estremamente credibile, realistico, e che apriva le porte ad un modo di essere rappresentato che potesse contenere del sentimento, che andasse al di là delle energie distruttive così naturali in un autore come Ionesco”.
Dunque, come ripropone quest’opera?
“Ho sfidato un po’ la resistenza del testo e ho pensato che potesse diventare una storia commovente, dolce, e che sotto sotto parlasse di una lunghissima storia d’amore durata quasi cento anni. Ho attraversato l’opera per poi lasciarmela alle spalle, che è il compito di ogni interprete e regista. M’è parso che a Ionesco, nel suo magnifico gioco corrosivo e di chi vuole fare a pezzi il teatro, gli fosse scappata una magnifica storia sulla vita, sull’amore, sulla durata di una coppia che si trova ad affrontare l’ultimo giorno di vita”.
L’allestimento è stato condizionato dal Covid?
“Eravamo nel pieno del lockdown quando lo abbiamo preparato, e i due vecchi chiusi in una stanza che si illudono di ricevere ospiti mi ha particolarmente toccato. Mi sembrava fosse il testo che più di ogni altro parlasse del momento che stavamo attraversando. E lo facesse con incredibile dolcezza. E molto mi ha ispirato la famosa foto di Ionesco in cui ha il volto imbronciato. I suoi occhi però sono quelli di un bambino in castigo. E partendo da quegli occhi ho pensato che forse avevo ragione. Fondamentale è stato il lavoro di scenografo e costumista che hanno salvato con i costumi clowneschi e le scene estreme quel gioco di parodie importante in Ionesco”.
Dati i tempi, come vede il presente e il futuro del Teatro?
“La risposta onesta è che non lo so. Di sicuro, quando le notizie dal mondo della Sanità sembravano essere ottimistiche, i teatri avevano la fila. Ora che con le varianti del virus si è creata grande confusione, la gente è più guardinga”.
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