Corsetti al Mercadante con Kafka: “Scelta legata ai tempi che stiamo vivendo”
di Veronica Meddi
Lo spettacolo ha avuto una lunga gestazione, doveva essere pronto da tempo, poi è stato interrotto a causa del Covid. Già la scelta del testo, La metamorfosi, era legata al momento. All’epoca c’era l’impossibilità degli attori di toccarsi in scena e, con questo congelamento, con questa reclusione, la storia di Gregorio mi sembrava molto pertinente al periodo di isolamento che stiamo vivendo, che purtroppo non è ancora terminato”. Così esordisce il regista Giorgio Barberio Corsetti in scena con l’opera di Franz Kafka al Mercadante di Napoli dal 2 al 13 marzo, con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri, Gea Martire sulle scene di Massimo Troncanetti e con le musiche di Massimo Sigillò Massara. Una produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale.
Corsetti, di che tipo di depressione ci parla Kafka?
“Di depressione sociale. Di quella specie di isolamento che porta a una trasformazione determinata dallo sguardo degli altri, fino ad arrivare a un annullamento totale. Nella Metamorfosi, Gregorio diventa un animale immondo. Viene sempre più isolato dalla famiglia che prima viveva proprio sulle sue spalle. Vive nella sporcizia; la sua stanza diventa un luogo dove si buttano tutti gli oggetti inutili della casa, un ripostiglio (in questa epoca contemporanea le cose si rompono e non si riparano più). La metamorfosi è un’opera-mondo, in cui la famiglia diventa tutto l’esterno, tutto quello che è al di fuori di Gregorio. Il mondo lo vediamo attraverso gli occhi di Gregorio, siamo con lui, noi, spettatori e lettori. Kafka è con Gregorio, per questo ho scelto di far recitare gli attori in terza persona. C’è uno straniamento e contemporaneamente una totale adesione a Kafka, non c’è un’oggettività, c’è malinconia, lo spettatore è condotto per mano in tutta la vicenda”.
Cosa o chi è il diverso?
“Nel caso di Gregorio, il diverso è colui che fa un lavoro alienante sottoposto a un capoufficio, un lavoro subordinato che lo porta piano piano a perdere se stesso. È quello che succede nella depressione, è come se ci si sentisse fuori dalle aspettative; una promessa della società non mantenuta”.
L’entrare nel mondo kafkiano cosa comporta?
“Sono decenni che mi confronto con la scrittura di Kafka, ci sono tanti elementi molto forti, soprattutto le rappresentanze, perché l’animale non si può rappresentare, questo animale è come è visto dagli altri. Qui, di fatto, Michelangelo Dalisi assume sul suo corpo la scrittura di Kafka che s’incide nei corpi, di cui i corpi s’impregnano. Alla fine, Gregorio, preso dalla domestica, viene messo in una scatola di cartone e buttato via. Ma questa tragicità in Kafka si accompagna sempre a una profonda ironia e comicità”.
In questa metamorfosi in cosa lei, regista, si è trasformato?
“In realtà, quando si lavora su Kafka, bisogna prendere ‘quella’ prospettiva. Si innesca un’identificazione col suo punto di vista, anche perché lui scriveva col corpo”.
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