Nel labirinto della mente della scrittrice catanese durante “gli incontri di mezzogiorno” con il suo analista
di Silvana Campese
Scrittrice, poetessa e attrice, Goliarda Sapienza (Catania 10 maggio 1924 – Gaeta 30 agosto 1996) fu, come moltissimi intellettuali della sua generazione, orgogliosamente portatrice di cultura dell’antifascismo. Pur facendo parte dell’ideologia che prevaleva in Italia nella sinistra laica, all’interno di questa, la scrittrice rappresentò decisamente una corrente minoritaria, ovvero quella che faceva della condizione femminile e della morale sessuale due questioni centrali dell’emancipazione sociale. L’eco del dibattito sull’argomento viene in evidenza soprattutto in L’arte della gioia, il poderoso romanzo della Sapienza, pubblicato postumo nel 1998, dove Joyce, l’amica della protagonista Modesta, le rimprovera di citare troppo le femministe, dimenticando che non si può improvvisamente parlare di libero amore, di aborto, di divorzio, ma che viceversa bisognerebbe andare per gradi.
Politicamente Goliarda fu dopotutto molto vicina ad un certo anarchismo, peraltro da lei stessa in varie occasioni proclamato, ma nel contempo non è possibile dissociarlo dal suo femminismo di matrice sessantottesca.
A me sembra che la caratteristica preponderante di questa donna straordinaria e rivalutata a trecentosessanta gradi troppo tardi perché potesse goderne come meritava, fu il suo anticonformismo, l’essere sempre controcorrente, il rifiuto perenne ad uniformare il pensiero e il comportamento a quelli altrui, maggioranza o minoranze che fossero e persino élite intellettuali, opponendo sempre strenua resistenza al rischio di essere influenzata dall’altrui volontà.
Gli animi come il suo sono tra i più esposti al rischio della disfatta, non mai definitiva ma in tal modo ogni volta vissuta, e quindi alla voragine della depressione e persino della volontà suicida.
Goliarda lo tentò, il suicidio, ben due volte e ne subì terribili conseguenze tra cui una serie di elettroshock e il coma. Negli anni Sessanta visse l’esperienza psicoanalitica.
Si distaccò dall’ambiente del cinema che aveva frequentato dopo l’ingresso al Centro Sperimentale di Cinematografia e la lunga e importante relazione con il regista Citto Maselli, e si dedicò con passione alla scrittura. In particolare, con il libro autobiografico Il filo di mezzogiorno, ripercorse con lucidità e una straordinaria dovizia di particolari il suo viaggio psicanalitico. Pubblicato per la prima volta nel 1969 da Garzanti, il volume è stato riproposto di recente da La nave di Teseo. Il testo, anticipando tratti dell’autofiction e del memoir, oggi molto diffusi, ripercorre attraverso le parole che la protagonista rivolge durante gli incontri di mezzogiorno al suo medico – con cui instaura un rapporto intimo e appassionato – tutto il suo percorso esistenziale, dalla partenza da casa verso Roma, alla persecuzione fascista, alla follia della madre, all’amore struggente per Maselli, che fu anche, per alcuni aspetti, devastante (“non facemmo la sciocchezza di sposarci ma il giuramento di restare insieme fino a quando l’amore ci avrebbe tenuti uniti”).
Cresce di pagina in pagina una consapevolezza personale ma anche universale, che riguarda in special modo la condizione femminile e il rapporto con l’altro sesso. Per citare una frase dello scrittore e regista Roberto Andò, quel “vivere senza rinunciare all’intensità insopportabile del dolore e del desiderio” che ci guida “nel labirinto della mente, nell’unico luogo in cui è possibile accarezzare le ferite dei sogni”.
Quando Mario Martone, regista teatrale e cinematografico, incrocia questo particolare aspetto del mondo di Goliarda Sapienza ne riconosce subito affinità elettive e di vissuto.
Il regista napoletano spiega in una nota: “Lo studio del mio analista era un rettangolo pronunciato; per un anno l’ho guardato seduto su una poltrona, schiena al lato corto dove c’era la porta d’ingresso e l’analista seduto davanti a me. Guardavo la porta a destra sul lato lungo e pensavo che oltre quella porta ci fosse la stanza col lettino. Quando mi disse che nella seduta successiva mi avrebbe voluto sul lettino, gli chiesi: ‘Dunque andremo in quell’altra stanza?’. Lui mi invitò a guardare alle sue spalle: ‘Il lettino è lì’. Non l’avevo mai visto. Forse da questo episodio è scaturita l’idea di sdoppiare la stanza di Goliarda”.
Dall’altra parte, Carmine Guarino adatta al testo con abilità la scena: l’azione si svolge in due diverse zone che corrispondono al mondo interiore dell’autrice ovvero allo spazio dell’inconscio, vuoto, buio, onirico, comunque appartato e solitario rispetto all’altro, il luogo della realtà e della relazione.
Qui, aprendosi all’analista, i fantasmi prendono corpo.
Il filo di mezzogiorno con la regia di Martone, nell’adattamento di Ippolita di Majo, approderà allo Stabile di Napoli dal 5 al 16 gennaio, con Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco. I costumi sono di Ortensia De Francesco e le luci di Cesare Accetta.
Mario Tronco ha musicato il canto dei pastori delle isole Eolie. Foto di Mario Spada. Una produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Catania, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale.
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