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Il Teatro come luogo di immedesimazione per illuminare la coscienza


di Ippolita di Majo

Il Teatro ha sempre fatto parte della mia vita, da bambina come il più bello dei giochi, negli anni della formazione come ossessione della conoscenza, nell’età adulta di nuovo come il più bello dei giochi, assieme al cinema.

Il primo spettacolo che ricordo è stato Underwood di Carolyn Carlson e poi l’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler con Ferruccio Soleri. Ricordo distintamente l’emozione, le risate, il desiderio di emulazione, lo stupore. Nell’infanzia alcuni ricordi si piantano nella memoria e restano lì, nitidissimi. Il primo spettacolo che ho fatto, invece, era per gioco, avevo una decina d’anni e il mio teatro era una casa in viale Calascione dove, con mia sorella e con un gruppo di amiche e amici che erano per me come sorelle e fratelli, costruivamo quotidianamente il nostro sogno. Potevamo disporre di un grande sipario nero, un fondale dipinto da qualche amico dei grandi di cui non saprei dire altro se non che aveva una buona mano, svariati abiti da sera di tessuti antichi e desueti sottratti all’armadio di nonna Delia che a detta sua li aveva indossati da giovane, e poi di vari oggetti che prendevamo in casa e portavamo in scena, qualche volta è anche capitato di costruire qualcosa con legno, chiodi e martello. Si lavorava alacremente al numero 7 di viale Calascione, avevamo deciso di mettere in scena un romanzo, lavorai alla riduzione del testo con la mia amica del cuore che era più grande e più brava di me, prima il copione, poi la messa in scena, poi la memoria, poi il pubblico. Una volta arrivarono inattese una cinquantina di persone che avevano sbagliato piano e invece di andare a una dottissima conferenza di argomento filosofico al 4o si erano trovate davanti una manciata di ragazzini su un palcoscenico improbabile al 2o, alcuni si divertirono e rimasero a vedere lo spettacolo e noi ovviamente staccammo i biglietti. Recitavo anch’io, ma questo lo ricordo senza piacere, con disagio, dicevo le mie battute di gran corsa e non vedevo l’ora di uscire. Tutto quello che precedeva l’andata in scena, invece, il lavoro sul testo, le prove, la costruzione visiva dello spettacolo, mi piaceva pazzamente. Sono passati molti anni da questi primi ricordi legati al teatro e nel frattempo ho percorso con impegno e passione altre strade. Per un po’ ho fatto ricerca all’Università da storica dell’arte lavorando su testi e immagini, sulla storia e sulla letteratura, sulla capacità persuasiva del racconto visivo e sulla volontà politica che sottende. Come adesso, anche allora scrivevo misurandomi con le immagini, ho sempre scritto in rapporto alle immagini e anche se quella saggistica è una scrittura decisamente di altra natura rispetto alla scrittura teatrale o cinematografica (fatta di invenzione, ritmo, dialoghi), il passaggio per me è stato fluido, e felice.

Il teatro per me è lo spazio di un’assemblea a cui non voglio rinunciare, è la possibilità di uno spietato affondo critico nei testi, nella scrittura altrui e nella propria, è il luogo dell’immedesimazione che a volte ti mette a nudo di fronte al tuo stesso sguardo e, quando riesce, può fare luce nelle pieghe più profonde della propria coscienza e di quella collettiva.


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