“Recuperanti” tratto da “Il mare non si mangia” di Enzo Moscato, Guida Editori Serie Oro
di Enzo Moscato
I due bambini, spesso, quando uscivano di scuola, nel tardo pomeriggio, a casa non tornavano.
O, almeno, non ci tornavano subito.
Preferivano di gran lunga allontanarsi dal quartiere piuttosto che rimanere tra i vicoli umidi e lerci, dove, altrettanto umidi e lerci ma anche bui e troppo angusti continuavano a cadere a pezzi i loro tuguri, eufemisticamente detti, sulle bugiarde carte del Comune, abitazioni, e in cui, ancora, tiravano a campare stentamente, così come stentamente, la notte, tiravano il respiro, le loro sterminate, reciproche famiglie, gli Abbondanza e i Talentruoni.
Usciti dalla scuola, ecco, non prendevano i vicoli dabbasso.
Quelli che, serpeggiando tortuosi o belli dritti, portavano a Toledo, la bella e signorile grande via, ma, partendo dallo stinto e misero portone dell’Elementare Parzanese – scuola loro – salivano, spediti, verso il Corso, oltre l’Ospedale Militare, su, su, verso i ripidi gradini che, dal Corso – inerpicandosi, se ne salgono ai Castelli, a Sant’Elmo, a San Martino, dove l’aria è rarefatta, non puzza di squallore e di monnezza, ma è molto dolce al naso e gradevole ai polmoni e, da cui, affacciati che si fossero al marmoreo parapetto dello spiazzo davanti al Forte e alla Certosa, si poteva dare poi uno sguardo a picco, sotto, verso la chiassosa e sconfinata Napoli distesa.
Chi non ha mai visto Napoli dall’alto – da Capodimonte, Vomero, Posillipo, Villanova, Camaldoli e, appunto, San Martino – non può avere idea di quale possa essere la sorpresa e, talvolta, lo sgomento, di chi, (pur nato e cresciuto in essa, ma abituato o costretto sempre a starci, a viverci, da basso, dentro i bassi del Basso della Città; dentro il radente, soffocante accavallarsi, “avvermicarsi” di continuo di vicoli e rumori tra di loro; dentro la nera e urlante coda, non testa, di pesce della splendida, mitica Sirena, da cui, nel tempo-senza tempo delle origini, l’urbe dal sangue greco trasse il nome di Partenope…) improvvisamente, la scorge dall’alto, Napoli, e, dall’alto, col cuore che si ferma, la rimira.
Come se la vedesse davvero e per la prima volta e con eterno, contrastante sentimento.
Cioè, non sa neppure lui se con la gioia della scoperta o l’infelicità di ciò che, conosciuto troppo tardi, si sarebbe, a conti fatti, preferito non vedere.
…
…Perché la bellezza fulminante di una cosa, che per tanto e tanto tempo qualcuno ci ha nascosto o impedito di vedere, non è detto che in noi susciti felicità e appagamento, quando, per caso o per calcolo, essa poi ci viene, ‘all’intrasatto’, rivelata.
E così accadeva proprio ai due monelli dei bassi dei Quartieri.
Ai due compagnucci della Scuola Elementare Parzanese, che, di tanto in tanto, nel pomeriggio, bello o brutto che si presentasse il tempo, se ne salivano dal Basso all’Alto; dalla coda o dalle viscere, buie, umide, asfittiche, alla ’capa’ e all’aria fine fine, elettrizzante, del sirenico e glorioso ‘cuorpo ’e Napule’.
A Sant’Elmo, a San Martino, alla Certosa…
E, da lì sopra, la prima cosa che facevano, terminato che avevano di salire gli ultimi gradini dell’erta Pedamentina, s’affacciavano al marmoreo parapetto e, sconvolti ogni volta, tremanti a quella vista, per la sorpresa ed il rammarico, ma anche, in cuor loro, come se fossero o si sentissero dei Beati, dei Miracolati, degli Eletti, ovvero dei Raccomandati del Buon Dio, guardavano di sotto l’immensa, bellissima e del tutto sconosciuta città, che pure gli dicevano o gli avevano narrato, era la loro.
Anche la loro.
Dopo di che, con pochi ed affrettati passi, se ne risalivano al castello, ma a quello, fra i due, che sembrava ed in effetti era il più malmesso: all’antico e diroccato Forte di Sant’Elmo, i cui infiniti buchi e anfratti di facciata, uno più grande e spaventevole dell’altro, pareva proprio che se li chiamassero ad entrare, come tante, oscure e sdentate bocche di balena, simile a quella della fiaba di Pinocchio, solo che il Bestione, questa volta, non era fatto di coriacea polpa ’e pesce, bensì di neri o di grigiastri pietroni millenari.
Difficile, però, dire con esattezza, se tutti quei buchi, quelle spalancature, quelle ferite, larghe o strette, che segnavano la faccia del maniero soldatesco, venissero soltanto dal passato, dal tempo infinito che era trascorso da quando il gran castello era stato messo su dai Re di Napoli, per difendere la città dagli assalti, per mare e per terra, dei Nemici, oppure fossero – almeno in parte – il risultato, il resto, l’agghiacciante rimmanenza, per così dire, di ciò che la recente e davvero orrenda guerra – coi suoi cento e più bombardamenti, dal cielo sulle case – avevano combinato in ogni dove.
Ma, alla fine dei conti, che importava tutto questo riflettere e domandarsi, ai due bambini?
Cosa importava loro se quelle mostruose eppure seducenti distruzioni – quelle voragini terribili – fossero dovute alle recenti bombe lanciate dagli Americani, dagli Inglesi, dai Tedeschi, i Canadesi, gli Australiani, nell’ultimo e micidiale nonché mondiale scannarsi collettivo, oppur fossero i segni, ancor presenti e palpitanti nelle mura di tanti e ultrasecolari colpi di bombarda o di cannoni di Francesi, Aragonesi, di Spagnoli, a cui, sempre, gli dicevano, era appartenuta per davvero la città, più che essere di naturale e legittima proprietà dei suoi abitanti?!
La cosa davvero importante, la cosa veramente meravigliosa, per i due bambini, era che con quelle devastazioni, con quelle rovine tremende, verticali e orizzontali, sulla pietra; sugli zigomi, la fronte, la bocca, le orecchie e gli occhi della faccia del castello diroccato, si potesse giocare a piacimento, a tanti giochi.
A nascondersi e poi acchiapparsi all’improvviso, per esempio.
Oppure a far la voce grossa, come quella degli adulti, dicendo qualche cosa, magari qualche parolaccia e poi provare a rimandarla attraverso il grande vuoto silenzioso delle mura e sentirle, poi, la voce e la parolaccia, dopo un certo tempo ritornare a loro, indietro, come un’eco tenebrosa e un po’ anche sfottente.
Oppure ancora, ecco, cercar d’arrampicarsi di buco in buco, di cunicolo in cunicolo, di varco in varco sulla facciata interna del castello, facendo solo uso dei piedi e delle mani, come i ragni, fino alla merlettatura in alto del maniero, pure quella, tutta divelta e ‘sconcicata’, piena zeppa di pericolosi scoscendimenti, improvvise e traditorie franature, come pure di taglienti pietre aguzze, che un po’ venivano fuori da scassati parapetti di finestre e finestroni, senza imposte e senza niente, un po’ da enigmatici pinnacoli pietrosi, forse resti ’e stemmi antichi, che, certe volte, a fissarli bene bene, sembravano tante teste e tante mani, però tagliate a pezzi; scaglie di bocche, nasi, orecchie, una volta appartenuti, chi lo sa?, forse a monumenti nobiliari e mò tutte distrutte, bombardate e così malridotte che, per quanto certamente antiche e forse da salvare per i posteri, nemmeno il più avaro robivecchi di dentro alla Giudecca ai Tribunali s’era voluto prendere il disturbo ’e portar via!
Ma la cosa meravigliosa, la cosa più meravigliosa fra tutte che lì, fra le rovine del castello, rallegrava, sfagiolava e di più mandava in sollucchero gioioso i due scugnizzi dei Quartieri, era che in quel posto non c’erano guardiani.
Non c’era assolutamente nessuno, né maschio, né femmina, né giovane né vecchio, a guardia o a custodia delle pietre, che gli dicesse di scendere e di andarsene.
Sì, non c’era nessuno che gli impedisse, a loro due bambini, di portare quel solitario ed azzardato gioco dell’arrampicarsi e del sospendersi sul vuoto e tra i vuoti del castello tanto avanti che poi cadevi giù e ti facevi male e ti stroppiavi e, facendoti del male e stroppiandoti di brutto, poi magari e casomai morivi, come spesso si dicevano tra loro, senza però intendere veramente quel che si dicevano.
No, nessuno c’era lì, di sotto o comunque nei paraggi, a vista, che glielo dicesse o che glielo gridasse – di scendere e di andarsene – con le buone o con le cattive. Nessuno.
E allora, il gioco, quella loro non tanto inconscia e mortale sfida continuata, quasi tutti i pomeriggi, con il rischio e col pericolo più estremo, assaltando, accarezzando la severa e dirupata faccia antica di Sant’Elmo, potevano, se volevano, prolungarla proprio all’infinito.
Fino a quando l’infinito stesso non si fosse scocciato, facendoli cadere dai rami giù per terra, come quaglie sprovvedute, quando l’aria, da serena, viene a mettersi a ‘trubbèa’ e ti va in culo!
E proprio in culo gli andò, il giorno che, nella polvere, di sotto al più alto squarcio nelle cime merlettate del castello, dove si erano ancora una volta arrampicati come due lucertole agili e veloci, una specie di allampanato scugnizzo sui quattordici/quindici anni, completamente nudo, tranne una corta pezza tutta lorda attorno ai fianchi, che portava a mo’ di striminzita, ridicola mutanda, o, meglio, a mo’ di striminzito ridicolo copri-vergogne della parte di corpo giù dall’ombelico, tutto sporco e nero di fuliggine, dalla testa ai piedi scalzi, nel deporre la gran sporta di paglia che portava su una spalla, e apprestandosi ad accovacciarsi, per un bisogno corporale, in un po’ di erba secca, che cresceva e brulicava a radi e distanti eppur presenti mucchi nel dominio assoluto del deserto di polvere e rottami che ormai era il Forte di Sant’Elmo, non si accorse dei due corpi supini dei bambini, e delle due facce pallide pallide, senza sangue e proprio come morte.
Allora, subito, usando penetranti lunghi fischi, fatti con le dita di una mano messe nella bocca e, insieme, mandando fuori rauche, smozzicate parole in dialetto, di allarme e di richiamo, attorno a lui, chiamò e chiamò, finché non fu presto circondato da una muta di adolescenti, circa una decina, tutti più o meno simili al fischiatore, per età e per il panno lordo attorno ai corpi ignudi. Era, quella piccola folla, tutta sozza e scarmigliata, di autoctoni e d’implumi selvaggi (ma sarebbe meglio dire di schiavetti, tanto erano malmessi e denutriti!) del Secolo Ventesimo, coloro che, nelle avanzate primavere – inizi estate dell’immediato Dopoguerra, nelle ormai pacifiche stagioni degli anni 1946/1947, la gente chiamava ‘i recuperanti’, perché essi, su richiesta, sia pubblica che privata, giravano per tutti gli spalti aperti della distrutta Italia: spiazzi dei caseggiati, nobili o umili cortili di palazzi, giardini grandi e piccoli all’interno o all’esterno di edifici sinistrati, eccetera, eccetera, a liberare o a sgombrare gli stessi, o anche i terreni che vi stavano attorno, dei tantissimi frammenti, esplosi e soprattutto non esplosi, delle infinite bombe lanciate dagli aerei sulla città nell’ultimo mondiale, infuocato autodafé.
E che, quindi, facevano servizio – per dir così – pure dentro e attorno le antiche moli distrutte dei castelli cittadini: Castel Capuano, Maschio Angioino, Castel dell’Ovo, ed anche in alto, si capisce, lassù sulla collina del ‘Vomero addiruso’, Castel Sant’Elmo, dai cui alti vuoti e infide scivolature nella distrutta architettura secolare, i corpi dei due piccoli, là, per terra, tra la polvere e l’’evera’ bruciata, sembravano essere caduti, quasi certamente, per disgrazia.
“Guagliù!”, disse a voce alta colui che per primo aveva scorto i due bambini e che portava il nome togo e dritto ’e Filippone. “Chiste so’ belle e mmuorte! O so’ carute, pazzianne, ’a copp’abbascio de’ mmure d’’o Castiello o quacche fetentissimo di lota, ca, pe’ mmo’, nun canuscimme, l’avrà fatte ’o malamente e po’ l’ha ’ccise! Cocchedune ’e vuje, sape chi so’? Cocchedune ’e vuje ’e canosce?”.
E, siccome dal gruppo dei giovani ‘sauvages’, di cui sembrava essere l’indiscusso e autoritario capintesta e di cui osservava a uno a uno attentamente i volti, tutti tesi, a loro volta, a fissare a occhi spalancati, i due piccoli Abbondanza e Talentruono, ai loro piedi, non si alzava alcuna voce, né di riconoscimento né di altro a proposito della coppia di morticelli, ma solo, a sentir bene, come una sorta di comune e di intermittente, frammentato rantolo, un respiro catarroso-collettivo, e a mezzo, rotto ed angosciato, come di chi soffra di mancanza d’aria o di un’asma dolorosa (era questo, del resto, il loro modo di provare e di esprimere emozioni: un povero modo di poveri ed implumi raccoglitori di tutte le schegge maligne, bombe o non bombe, effuse e diffuse per l’intera superficie del più maligno dei mondi possibili e invivibili…), allora si risolse, come un vero capo a dire: “Vabbuo’! Facimme ’na cosa! Svacantamm’ ’e sporte ’e tutto chello ca fino a mò avimme cugliùte! Mettitece a rinto ’sti duie muorte piccerille! E purtàmmele fora d’’o Castiello!
Mettìtele esposti, accussì comme stanne stanne, ’ncopp’ ’o marciappiere!
Po’ essere ca coccheduno, passanne, ’e guarda ’nfaccia, ’e ricunosce e po’ ce dice ’e nomme! Allora, ’e purtamme nuie stesse a casa lloro!
A si no, si nisciuno ’e ssape, facìmme comme si fòssene de’ nuoste… n’ati duie ’recuperanti’ e ce damme sepoltura proprio nuie, sotto all’èvera cchiù fresca ca truvamme!”.
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