“Il nostro futuro è nell’incontro con le altre arti”. Tiezzi si racconta: il mestiere di regista, l’importanza della parola, l’interdipendenza tra corpo e recitazione
di Federico Tiezzi
Maggio 2020
Ho cominciato con il teatro negli anni 70, dopo la laurea in storia dell’arte (sono uno specialista di tardo-gotico). In quegli anni il sistema del teatro riceveva impulso dai gruppi, entità autonome e complesse, in cui i richiami estetici si fondevano con nuove modalità di creazione. Il modello di lavoro era la condivisione. Ci nutrivamo di discussioni sull’arte, frutto della vita in comune. Soprattutto, ci interessavano le questioni del linguaggio, sollecitate da mostre fondamentali, come quella di Harald Szeemann al Monte Verità di Ascona, o da spettacoli come quelli di Luca Ronconi al Laboratorio di Prato. Fu Franco Quadri, critico illustre, a introdurmi in quel Laboratorio: scoprii un mondo teatrale complesso, scoprii il significato della parola ”recitazione”. Perché facevamo teatro? Per il bisogno di progettare una vita, una identità differenti. Per avere una profezia di futuro. Dal gruppo emersero le singole personalità.
Scoprii cosa significa essere regista attraverso i registi del passato novecentesco: Craig, Mejerchol’d, Reinhardt... Riabilitai, nel mio lavoro, la memoria: il nomadismo culturale e l’eclettismo stilistico sostituirono l’ottimismo sperimentale delle avanguardie. E la rottura divenne più radicale grazie a maestri come Ronconi, Barba, Grotowski, Chéreau, allo stile e alle drammaturgie del teatro Nō e del Kabuki, da me studiati con passione.
Con Sandro Lombardi, e la Compagnia che guidavamo allora, facemmo parte del “nuovo teatro” al quale Giuseppe Bartolucci, il critico e teorico più attento di quegli anni, dette nomi diversi: teatro immagine, teatro metropolitano, post avanguardia. A un tratto, il mondo di immagini che aveva sostenuto il teatro nei decenni 70 e 80 si frantumò e divenne, al mio sguardo, manieristico, ripetitivo. Al principio degli anni 90 la letteratura teatrale mi salvò. Lo fece con la sostanza e il peso della parola e con la presenza crescente della volontà razionalizzatrice imposta dall’autore e dal regista. Alla ricchezza barocca di immagini degli anni precedenti si sostituì nel mio lavoro l’asciuttezza della logica wittgensteiniana: visionarietà e razionalità dettero tridimensionalità alla recitazione dell’attore, permettendogli di attingere alla propria geografia emotiva con maggiore profondità. Come la post avanguardia pittorica rientrò nei confini del quadro, io tornai dentro la cornice del testo, all’interno di un racconto nel quale creare il “mio racconto”.
Così, negli ultimi 40 anni, in questo spazio riconquistato ho approfondito il ruolo del regista, per comprendere che egli si trova sempre dinanzi a una vertigine. Nel suo Tractatus logico-philosophicus Wittgenstein sostiene che “l’immagine è un modello della realtà” e che “l’immagine logica può raffigurare il mondo”. E così io, intuendo che la realtà dovesse penetrare nelle mie regie, presi ad accogliere ogni fantasma e trasalimento delle vite e dell’esistenza perché irrompessero nel dogma del palcoscenico. Davanti al regista che crea si apre uno spazio vuoto, quello fra l’atto teatrale e l’idea che in esso vuole impigliarsi e intanto il linguaggio dello spettacolo, lentamente, s’inoltra nella sua autonomia. Il regista vive perpetuamente in un territorio inesplorato. Ora, se c’è un processo metodologico nel lavoro del regista, esso consiste nello sfrondamento progressivo della categoria delle possibilità. Il regista entra in un territorio inesplorato, lo spazio in cui attore e testo si scrutano silenziosi: ma la traccia che può seguire è una sola, e il corpo è uno soltanto. Si combatte tra il dato, il nudo dato delle proposizioni del linguaggio, e ciò che esso può diventare, la sua metamorfosi.
Cerca, il regista, tutte le strade possibili ma, poi, si accorge che la via da seguire è unica. È lo spettacolo che gli va incontro, non viceversa. In questo processo dinamico di creazione il regista non ha limiti. Il suo colore preferito è il multicolore, il plurimo. La sua capacità creativa è quella di fare incarnare in un attore un racconto, affinché qualcosa si riveli. Come se ogni volta fosse un esercizio spirituale zen la cui prospettiva è la ricerca di un satori. L’attore è qualcuno di carne e sangue, il testo è una macchina di parole: di ambedue il regista deve cogliere la radiazione.
Chi crea uno spettacolo deve riuscire ad abitare le vite altrui e a far capire al pubblico che dentro un personaggio o una frase la vita si muove come in un romanzo di Balzac e Dostoevskij, in cui la parola riproduce e svela il mistero delle ore, il passaggio dei minuti, i rapporti tra le persone. La recitazione non sorge spontanea, non è qualcosa di naturale, ma al contrario qualcosa di artefatto, è un progetto di pensiero che si forma davanti agli occhi dello spettatore. È un pensiero che si forma con il movimento dinamico delle pause, delle intenzioni. Il regista è colui che crea alla rappresentazione una coscienza: attiva, capace di interagire, come un respiro di ritorno, col mondo.
Come spiega Mefistofele a Faust, bisogna uscire dal proprio mondo chiuso di intellettuali spleenetici e andare nel mondo: e riscoprire il corpo e con lui il desiderio di linguaggio. Il lavoro sull’attore di questi anni mi ha portato verso una maggiore “connessione” tra corpo e pensiero: e ho capito che un regista può agire solo sull’uomo che sta dietro l’attore che crea.
È la coscienza degli attori che creerà lo spettacolo, nella sua densità, nel suo peso specifico. È la lezione del teatro classico giapponese, Nō e Kabuki, che cercano l’interazione tra recitazione e azione fisica. Vorrei molto che il teatro contemporaneo superasse questa separazione, questa dicotomia. C’è una vita dietro il corpo, c’è una vita dietro le parole: spirituale, morale, sociale. Regista e attore vi devono accedere per indirizzare la comunicazione verso mete più profonde. Verso immagini del profondo. Anche lo spettatore può ottenere una esperienza diversa dalla visione. In L’apparenza inganna, Sandro Lombardi e Massimo Verdastro abitavano stanze di un appartamento facendone teatro. Il pubblico era così vicino che il respiro e il sudore degli attori, i loro ricordi, il loro sovrapensiero erano quasi i protagonisti della recitazione.
C’è una esperienza del teatro ogni volta che lo spettacolo è riuscito. C’è però un teatro dell’esperienza quando lo spettatore è “connesso” spazialmente, fisicamente al temenos dello spettacolo. La signorina Else, due anni fa, ha richiesto a me e agli attori un lavoro duro, difficile allestita com’era dentro un teatro anatomico seicentesco, a Pistoia, per 25 spettatori a volta. Gli spasimi, le emozioni, i trasalimenti, le accensioni del linguaggio schnitzleriano acquistavano un significato bruciante, fisico anche per gli spettatori che spiavano da sopra le spalle di Else la lettera equivoca della madre o il desiderio dello spasimante Dorsday. Mi interessa sovvertire il rapporto tra attore e spettatore, coinvolgere intelligenza e spirito di chi guarda, pur stando seduto. È forse un ricongiungersi, nella maturità, alle mie esperienze performative dei decenni passati con Alighiero Boetti, Giulio Paolini, Sylvano Bussotti, Salvatore Sciarrino, Rainer Fassbinder.... Oggi, però, mi pare non si colga l’importanza di “essere insieme” di attore e spettatore: che è un lavoro vero e proprio, che implica la connessione totale delle due realtà, affinché gli sguardi possano vicendevolmente legarsi in una catena di miele e di rose. Penso spesso all’Only Connect (fai solo connessioni), exergo di Casa Howard, di E.M. Forster.
Questo invoca il teatro: connettere il suo linguaggio con le altre arti, soprattutto quelle visive e quelle del movimento. Gli ostacoli? In gran parte il sistema produttivo, che spegne la libertà di creare, cioè infine la creatività stessa. Un sistema che non tiene conto che siamo artisti non macchine di produzione, che siamo artigiani del pensiero e della forma. Fino ad alcuni anni fa, la storia personale e il lavoro avevano una interlocuzione umana, la qualità di ogni artista aveva una storia, e persone con una storia (fossero produttori o critici) sostenevano il lavoro e le sue fatiche. Ora siamo nelle algide mani degli algoritmi.
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