Elogio del silenzio
di Fabio Pisano
Marzo 2020
La prossimità. Intesa come vicinanza. Una vicinanza che sia di spazio, di tempo. Prossimità intesa come prossimo, come essere; talvolta umano. Su questa parola, su questo concetto che può assumere i grigi toni dell’ambizione, si basa la mia drammaturgia o il mio tentativo; perché in fondo, è sempre un tentare. Quando mi chiedono cosa faccio, nella e per la vita, rispondo “ambisco ad essere un drammaturgo’: Ambisco, già. Alla prossimità; e al silenzio della prossimità. Prima di un grande boato c’è sempre il silenzio, ma il boato è l’evento, il silenzio è la vita. E la drammaturgia. Per me sta tutta lì, tutta in quel silenzio; le parole sono solo un intermezzo, al silenzio. Sono un accadimento. Il silenzio è elaborazione drammatica, è la necessità di ingoiare nelle viscere delle proprie percezioni ciò cui si sta assistendo, anzi, ciò che si sta ascoltando; ho il mio credo, la mia fede nel teatro “che s’ascolta”. Che si origlia, che si bisbiglia. Raramente, che si urla. Ma sempre, che si tace. Il quam ut audiam che dipende dal modo in cui si racconta. Il modo. Forma e lingua. C’è sempre qualcosa da raccontare, ma per lo più si sta zitti, perché non si ha mai la forma. Pinter per me, in questo senso, è sopra ogni altro autore. Il suo modo d’immergersi in forma e linguaggio è esemplare del teatro che (in)seguo.
Questa fascinazione infinita per la forma mi spinge sempre verso altre atmosfere. Cerco la verticalità; il drammaturgo, a mio avviso, si differenzia dall’autore proprio per questo: il primo s’inerpica sulla verticalità, cercando ed esplorando altre atmosfere, rischiando una deliziosa e letale ipossia, ma sempre salendo, col rischio di cadere e sbattere il muso per terra, mentre l’autore si dà all’orizzonte, tirando la linea di confine un po’ più inlà, stabilendo un nuovo limite per l’occhio, che resterà comunque relativo; dietro la linea il mondo continua. Così la drammaturgia. Le atmosfere che cerco sono atmosfere che respirino di nuove parole, di nuovi “assemblaggi” di parole, per dar vita ad una lingua che non scenda nelle viscere della mia terra, di Napoli, del napoletano, che tanto amo ma da cui tanto mi tengo alla larga, ché in tal uni casi lo ritengo un’alcova, un rifugio. Un modo di evitare quella che è la necessaria crisi. C’è bisogno di spogliarsi, di restare nudi rispetto alle proprie origini, al proprio vissuto, alla propria storia. Ci sarà sempre tempo per raccontarsi. Per raccontare, invece, il tempo non basta mai.
La lingua che cerco è piuttosto una lingua che salga, che sia leggera, lirica o esemplare; una lingua che non mi appartiene, perché non deve essere mia, ma dei personaggi, la qual dignità è pari se non superiore a quella dell’autore. Un personaggio sparisce nel buio e vive tutta la sua vita nel tempo della rappresentazione. Non sarebbe giusto prestargli la mia lingua. Lui ne avrà sicuramente una propria, una migliore. Così nascono le mie drammaturgie; mi fisso d’improvviso un luogo. Un luogo del pensiero, un luogo del corpo, un luogo di una o della storia. S’attacca alle pareti della mente un evento, un momento, qualcosa o qualcuno che vivo. È così che s’inizia a passeggiare sul crinale, sulla linea di confine che fa precipitare, in qualsiasi caso. Una passeggiata che può durare, come nel caso di alcuni testi, anche molti anni.
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