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Eugenio Barba

Oltre il sipario l’atto creativo: così una intuizione diventa carne teatrale.

Eugenio Barba, tra i maggiori esponenti del teatro mondiale e fondatore dell’Odin, racconta com’è nato Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, che Lorenzo Gleijeses porta in palcoscenico



di Eugenio Barba

Aprile 2020 Nel settembre 2015, nel corridoio che porta alla cucina dell’Odin Teatret mi trovai di fronte a Lorenzo Gleijses e Mirto Baliani. Erano da noi in residenza, per sviluppare materiali elaborati in precedenza con il coreografo Michele di Stefano. Approfittavano dell’occasione per mostrarli anche a Julia Varley che, come regista, lavora con Lorenzo dal 2002. Mi è simpatico Lorenzo. Ha qualità umane e professionali che mi toccano. Paziente nei confronti del lavoro, è capace di indovinare cosa il processo stia indicando, pronto ad abbracciare una situazione inaspettata nonostante non riesca a dominarla con la ragione. Possiede la più grande virtù di un attore: resiste alla tentazione di accontentarsi del primo risultato. Ed è un attore anfibio, capace di vivere nelle vaste acque del teatro tradizionale e sulle isole galleggianti del Terzo Teatro.

Figlio d’arte, appena diciottenne si lasciò “traviare” e si gettò in un percorso di “lavoro su se stesso” guidato da Julia. Il suo training - un apprendistato del corpo-mente e della voce, tipico dell’Odin Teatret e di molti altri gruppi - sfociava in una drammaturgia d’attore. Con questo termine intendo la capacità di creare autonomamente materiali scenici, modi di muoversi, camminare, comportarsi, parlare, scrivere o selezionare brani di prosa o poesia, improvvisare scene, fissarle, distillarle. Su questo materiale, sorto dall’immaginazione e dall’esperienza individuale, si fonde gradualmente il testo finale, dando così nascita al personaggio. Potrei, quindi, dire che esiste un teatro che lavora per il testo, interpretandolo e adattandolo a contingenze storiche ed estetiche a noi vicine; e un teatro che lavora con il testo, la cui forza è una delle tante che compongono lo spettacolo, un organismo vivente che sprigiona energia.

Un giorno Julia, a causa di un impegno esterno, mi chiese di osservare i “materiali” di Lorenzo e Mirto. Rimasi sconcertato. Erano solo sei movimenti ripetuti maniacalmente nello spazio e in infinite varianti. La mia attenzione si affievolì fino a spegnersi. Lo spiegai a Lorenzo: non riuscivo a scorgere niente in quel moto astratto. L’unica vaga associazione l’avevo avuta quando era al suolo e si contorceva come uno scarafaggio rovesciato sul dorso. Scherzando, gli dissi che avrebbe potuto intitolare il suo spettacolo La metamorfosi di Kafka. Il giorno dopo, sempre nello stesso corridoio, mi pregò di vedere come aveva adattato i suoi materiali alle Metamorfosi. Durante la notte aveva registrato il testo di Kafka che adesso, nella parte finale, una voce fuori campo interpretava durante le sue contorsioni. Il risultato era embrionico, non capivo se fosse maschio o femmina, che cosa volesse diventare, se avesse vitalità per crescere durante i futuri mesi di gestazione. Ero, però, impressionato dalla determinazione di Lorenzo e Mirto, che nel giro di una notte avevano trasformato una battuta ironica in realtà scenica.

Osservai il loro lavoro ancora un paio di volte commentandolo vagamente. Da parte mia vi era una sconfinata simpatia per quei due stacanovisti nottambuli, e nessuna voglia di lasciarmi coinvolgere. Al momento di lasciare Holstebro, sede dell’Odin, Lorenzo mi chiese se poteva mostrarmi lo sviluppo dei materiali quando mi sarei trovato in Italia. Nella primavera 2016 mi chiamò al telefono: eravamo disposti, io e Julia, a dare una master class pubblica? Lui avrebbe presentato i materiali della Metamorfosi e noi due saremmo intervenuti da bravi registi: accorciato, modificato, proposto, elaborato dettagli, affilato ritmi, suggerito intonazioni. Insomma, una prova aperta al pubblico, poche ore, una sola serata. Il Napoli Teatro Festival Italia era interessato a inserirla nel proprio programma. Durante quella serata alla Galleria Toledo a Napoli, nel giugno 2016, mi resi conto del lungo cammino che Lorenzo e Mirto avevano percorso dopo Holstebro. Il minuscolo embrione era cresciuto, ostentava fattezze e cadenze proprie, un profilo di intarsi dinamici ed evocativi con una potenzialità di immagini che stuzzicavano la voglia di accompagnarne il loro sviluppo.

Così Lorenzo, Mirto, Julia ed io - e l’infaticabile alter ego factotum Manolo Muoio - decidemmo di far crescere lo spettacolo insieme. Convalidammo il titolo: Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa. Sarebbe stata una creazione collettiva. Ci arrovellammo per scoprire nel nostro calendario brevi parentesi per incontrarci e modi per procedere anche a distanza. WhatsApp ed email, video e Skype possono aiutare, ma non trasmettono energia che pulsa. A Lorenzo e Mirto incombeva la responsabilità di esplorare e far crescere le incarnazioni dell’embrione. Era loro compito aggiungere testi, inventare scene, musiche, introdurre altri partner, oggetti o gadget tecnologici. La vera difficoltà era trovare dei periodi, anche brevi, per annullare i duemila chilometri che ci separavano e ripristinare !’intensa intimità di lavoro che permette di applicare il principio essenziale: plasmare, capovolgere, tranciare. Togliere è aggiungere, aggiungere è togliere. Era una situazione totalmente insolita e spiazzante per me, abituato ad accompagnare la crescita di uno spettacolo giorno dopo giorno nel corso di molti mesi.

Riuscimmo a lavorare insieme per cinque giorni al Quirino di Roma nel giugno 2017 e per altri cinque a Napoli nel marzo 2018. Lorenzo venne a Holstebro una settimana, nel settembre dello stesso anno. Alla fine, sempre a Napoli, ci ritrovammo per nove giorni a novembre 2018.

Lorenzo continuava a lavorare in Italia con Mirto e Manolo e spediva via WhatsApp regolarmente a Julia e a me nuovi testi o modifiche di scene già fissate, ricevendo in cambio commenti e indicazioni. Quando si prepara uno spettacolo, esiste sempre un momento della verità che, per noi, avvenne tra il 23 e il 29 giugno 2018. Ancora una volta il Festival di Napoli aveva appoggiato il progetto di Lorenzo. Nell’arco di una settimana una trentina di attori, registi e drammaturghi seguirono le prove della Giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa.

Fu al NEST che ebbe luogo la “mente collettiva”. Nel bando di partecipazione si spiegava cosa fosse. Tra l’altro, si diceva: “In teatro possiamo parlare di ‘mente collettiva’ quando un gruppo di persone motivate è impegnato in un processo creativo che non miri a realizzare un progetto già chiaramente definito... un processo di montaggio simile a quello che avviene in una mente individuale alle prese con l’invenzione”.

Al NEST, dunque, anticipavo il piacere delle novità con le quali Lorenzo mi avrebbe sorpreso. Rimasi costernato. In un impeto di creatività, Lorenzo e Mirto avevano sfasciato e riplasmato !’intera struttura dandole, ai miei occhi, tutto un altro senso. Dopo la prova, il silenzio durò a lungo. Sentivo alle mie spalle l’impatto che lo spettacolo aveva provocato nei partecipanti della mente collettiva. Julia paventava le mie reazioni. Lorenzo e Mirto attendevano fiduciosi. Come dire che mi sentivo tradito? Quali parole usare per esprimere il rammarico per un’aspettativa profonda che era stata gabbata? Cosa era scomparso dalla versione precedente che avevo mantenuto in vita dentro di me per mesi e mesi, limando un particolare, una pausa, un atteggiamento?

Chiesi a Lorenzo il motivo del radicale cambiamento nella struttura che avevamo concordato. I suoi argomenti erano pertinenti e i risultati ne dimostravano l’efficacia. Le reazioni dei partecipanti ne erano la prova. Ma a me mancava il disagio e l’irritazione che mi creava la lettura del testo di Kafka. Adesso l’assurda storia di un uomo che diventa insetto non destava più in me fastidio, scuotimento scettico di testa, sbigottimento, quasi panico. Era la parte rettile del mio cervello che non reagiva più? Era la metafora che rimaneva solo metafora concettuale, artisticamente ben confezionata, ma che non mordeva più la carne. Spiegai a Lorenzo e Mirto che dovevamo dimenticare la loro versione e ricostruire quella precedente. In quel momento ammirai Lorenzo e ne apprezzai la forza d’animo. Replicò solamente: d’accordo. E ci riuscimmo durante quella settimana grazie al suo sforzo sovrumano.

Per 55 anni ho messo in scena solo gli attori dell’Odin Teatret e i maestri asiatici del Theatrum Mundi Ensemble. Perché ho tradito quella mia abitudine? Vocazione o pigrizia? Vi sono tradimenti che sono piacevoli e tradimenti che sono una fuga, una forma di rinnovamento o la scelta di un destino diverso. Ma il tradimento di Julia e mio con Lorenzo, Mirto e Manolo è stato un ritorno a casa, al mio mondo. A quale mondo appartiene il mio teatro? Se fosse un elemento - terra, acqua, fuoco, aria - sarebbe il mare. Non conosco l’arte di rimanere a galla da solo. Allora cerco la mano di un altro, un individuo disperato, fiducioso, ambizioso o ingenuo, ferito profondamente o che vuole scappare da se stesso. È un individuo pronto a spingere il mare assieme a me verso quel muscolo che pompa sangue. E quando, esausti, sentiamo che è impossibile, il mare è una goccia che cola azzurra sulla gota di uno spettatore. Suona sentimentale, ma lo sforzo vale la pena.


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