Quando la voce si fa carne e diventa azione, non mera descrizione, sulla tragedia
di profughi e migranti
di Maddalena Porcelli
L’abisso è il titolo del lavoro tea-trale che lo scrittore, attore e drammaturgo Davide Enia ha tratto dal suo romanzo Appunti per un naufragio, edito da Sellerio nel maggio del 2017 e disponibile, grazie a Emons Edizioni, anche in audiolibro. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro di Roma, dal Teatro Biondo di Palermo, dall’Accademia Perduta/Romagna Teatri, in collaborazione con il Festival della narrazione di Arzo, debuttò nell’ottobre del 2018, destando grande attenzione di pubblico e di critica. Dall’11 al 16 gennaio, sarà riproposto in Campania, essendo inserito nella nuova stagione teatrale del Bellini di Napoli.
Considerando quanto affermato dalla critica, il cui bisogno è troppo spesso quello d’inquadrare un processo artistico secondo parametri dati, gli chiedo se condivide di essere considerato un esponente di spicco del cosiddetto teatro di narrazione, nel quale figurano anche Marco Paolini, Laura Curino, Marco Baliani, Ascanio Celestini: un teatro fondato sulla parola, dove l’attore si presenta sulla scena senza più lo schermo del personaggio ma solo con la propria identità, il suo corpo e la sua voce, per comunicare al pubblico, attraverso il racconto di esperienze concrete, spesso con intenti di denuncia, storie reali. Ma la risposta è netta: “Lo nego nella maniera più assoluta. Non posso concepire delle etichette in riferimento al teatro, perché sarebbe una contraddizione in essere: il teatro è uno spazio aperto, con sentieri da esplorare, che intreccia molteplici e imprevedibili percorsi; non è mai definitivo ed è impossibile da definire; inoltre, nello specifico, posso affermare con tutte le mie forze che L’abisso è forse il lavoro più performativo che abbia mai intrapreso e nel quale sono coinvolto con tutto me stesso; qui la voce si fa carne e diventa azione, non mera descrizione di accadimenti. Certo, racconto le storie che ho udito dalle stesse bocche di chi ha vissuto esperienze traumatiche, ma talvolta nemmeno la parola riesce ad esprimere quel dolore, troppo profondo per essere esternato”.
L’abisso è il racconto di una testimonianza, quella dello stesso Enia, che a Lampedusa ha guardato dritto negli occhi la tragedia dei profughi e dei migranti del Mediterraneo che da oltre vent’anni coinvolge l’Italia, non solo, ma l’intera Europa. Un racconto fatto di frammenti, di storie spezzate, di vite infrante, violate, calpestate, dentro una Storia che rievoca il nazismo, un altro grande rimosso mai del tutto elaborato e che per questo riaffiora. Traspare, dalle sue parole, un’indignazione profonda nei confronti dell’UE, nata per porre fine alle guerre al proprio interno ma che oggi adotta scelte politiche, insieme o separatamente agli Stati membri, che hanno portato la guerra ai suoi confini, alimentandola con l’invio di forze militari e con la vendita d’armi.
“Tutto ciò che accade è interconnesso” insiste Enia, con accenti di sconforto.
“Quei conflitti, insieme alla crisi ambientale e alla miseria provocata dalla nostra economia predatoria, continuano a creare milioni di profughi che l’Europa si ostina a respingere, finanziando, come in Libia e in Sudan, veri e propri campi di concentramento e pattuglie armate affinché non varchino il suolo europeo”. Ma cos’è, gli chiedo, se si esclude quella parte sana di persone che se ne discosta, che annienta in modo così assoluto quel senso di umanità, di naturale solidarietà, di mutuo soccorso, di un’intera società, sempre più chiusa nei propri egoismi e perennemente in competizione con il suo prossimo?
“Paura, solo paura. Paura di veder turbato un ordine illusorio su cui si è costruito un modello sociale fondato sui consumi indotti, dove il superfluo alimenta i desideri e dove anche il più piccolo dei privilegi va protetto contro tutto e tutti”. Il ragionamento cade inevitabilmente sui programmi politici racchiusi nella scelta di quel modello e determinati da precise logiche economiche, che fomentano lo scontro tra poveri di cui si alimenta la xenofobia.
“Questo flusso non si arresterà mai e scatenerà conflitti sempre più grandi all’interno dell’Europa, a meno che non si cambi rotta. Quell’ideale che spinse all’unione dei popoli, stanchi di combattersi e di odiarsi, desiderosi di pace, ha abdicato alla missione che si è data con la Carta dei diritti e oggi sta decretando, con i suoi trattati di respingimento dei profughi, il suo fallimento e il suo suicidio”.
Il Mediterraneo si è infatti trasformato in un cimitero, un abisso, appunto, in cui naufragano migliaia di vittime innocenti, ma anche quello stesso pensiero di uguaglianza e solidarietà da cui prese le mosse il Manifesto di Ventotene.
Enia non è solo in scena. Ad accompagnare il suo racconto, il musicista Giulio Barocchieri con la chitarra elettrica.
“La musica segue l’intero racconto e spesso supplisce all’incapacità di comunicazione della parola. Quando il dolore del trauma prende il sopravvento, come ho detto, la parola si blocca ed è in questi momenti che interviene la musica”.
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