top of page

Due atti unici. Tra l’illusione e il grottesco

Angelica Ippolito: “Con Sik Sik l’artefice magico e Dolore sotto chiave Eduardo

disse addio alle scene. Io e Cecchi li riproponiamo dopo 40 anni”



di Anita Curci

Sik Sik l’artefice magico, tragicommedia degli anni Trenta che disegna il profilo di un illusionista squattrinato e maldestro, e Dolore sotto chiave del 1964, affresco grottesco sul senso della morte. Due atti unici, pietre miliari del teatro di Eduardo, che vengono riproposte da Carlo Cecchi come regista e interprete dal 28 al 30 gennaio al Comunale di Caserta. L’allestimento si avvale dell’incisiva presenza di Angelica Ippolito, figlia della scrittrice Isabella Quarantotti, terza e ultima moglie di Eduardo De Filippo.


Angelica Ippolito, questi sono i due atti con cui Eduardo si congedò dal pubblico. Dopo 40 anni ha deciso con Cecchi di riproporre lo stesso abbinamento.

“Nemmeno conclusa l’esibizione con Enrico IV di Pirandello, che Carlo già pensava a uno spettacolo di Eduardo. Sik Sik lo avevamo rappresentato anni fa, associandolo a Claus Peymann di Bernhard. Ma lui voleva accostarlo a qualcosa di beffardo, così la scelta di Dolore sotto chiave. Questo succedeva nel 2019. Poi, la chiusura per pandemia. Nell’Ottanta, con Eduardo, gli atti unici erano tre, insieme a Gennareniello. Ma dopo il terremoto in Irpinia, un po’ per stanchezza – poiché Sik Sik è un personaggio impegnativo – un po’ per rispetto verso un territorio colpito dalla tragedia, decise di sostituirlo con Scorzetta di limone di Gino Rocca”.


La sua vita artistica è stata segnata anche dal rapporto sentimentale con Gian Maria Volonté. Che affinità c’erano tra questi due grandi?

“L’affinità tra i due geni è la vocazione per la scena. Ricordo che, in un’intervista, a Eduardo fu chiesto cosa avrebbe fatto, se non fosse diventato attore. E lui: ‘Forse non sarei nato’. Eduardo era il teatro. Vi andava tre ore prima dello spettacolo, perché tutto il resto lo annoiava. Lo stesso per Gian Maria. Durante la preparazione di un film, si ritirava dalla vita sociale per farsi assorbire solo dal lavoro. Io gli dicevo che andava agli arresti domiciliari. Come un religioso che si fa prete, entrambi avevano sposato il teatro e il cinema in maniera esclusiva”.


Cecchi una volta definì Eduardo “massimo esempio di teatro vivente”. Pensa che oggi possa valere anche per lui?

“Pure per Carlo il teatro è vocazione. Questi due anni di reclusione li ha vissuti con tormento. Quando abbiamo ripreso le prove, è rifiorito. Direi che, però, sono diversi nel modo di approcciarsi agli attori. Eduardo ci teneva legati alle intonazione dei tempi comici. Dei suoi testi, in partenza sapevamo in che punto arrivavano le risate. Come negli spartiti di Mozart, dotati di parti più o meno vivaci. Su quei punti cruciali, Eduardo ci chiedeva maggiore impeto. Dentro questa gabbia, l’attore era poi libero di esprimere se stesso. Carlo spiega cosa devi o non devi fare, ma non ti dà l’intonazione. È l’attore che deve interagire con il testo”.


Il ricordo più caro della sua carriera?

“Sono tanti e si accavallano. Ho cominciato nella compagnia Granteatro di Cecchi negli anni Sessanta. Una sera, a Montepulciano con Ricatto a teatro di Dacia Maraini, finimmo tutti in carcere. Un militare in platea si scandalizzò per una presunta scena sadomasochista. Benché lo spettacolo fosse approvato dalla censura, dovemmo affrontare un processo. Quando la compagnia si smembrò, Eduardo ci prese con sé nella sua. Io vi rimasi dal ‘69 all’80, anno in cui Eduardo la sciolse”.


©Riproduzione Riservata

Comments


bottom of page