"Gli interpreti portano la loro vita nel testo da recitare"
di Massimiliano Mottola
Arrivati alla metà della propria esistenza, ci si chiede come si vuol vivere il resto dei giorni. Davanti alla tragedia di non sapere perché siamo qui sulla Terra, la risposta la troviamo nell’amore. Il problema è che in Vanja tutti sono alla ricerca di questo amore, ma l’amore non si trova”. Così esordisce il regista e drammaturgo spagnolo, Alex Rigola, che a maggio al Museo Madre avrebbe portato l’allestimento, prodotto dallo Stabile del Veneto e temporaneamente sospeso, Vanja - Scene di vita, con attori italiani. La decisione di salvare l’intervista nonostante la cancellazione, per ora, dello spettacolo, è dettata dall’interesse dei suoi contenuti, che vanno oltre le necessarie rinunce imposte dal presente.
Rigola, la scelta del testo sta allora nella sua attualità?
“Sì. Perché c’è un momento in cui ciascuno pensa al suo percorso, lo guarda e si domanda: “Perché sono qui a sopportare questa realtà così difficile?”. Čechov è stato uno studioso di Schopenhauer, il quale diceva che noi viviamo per soffrire. Il mio è anche un invito a vivere meglio la vita”.
Come viene espresso questo sulla scena?
“Secondo la mia nuova modalità di allestimento. Circa cinque anni fa ho trovato finalmente il mio linguaggio ideale. Oggi, più che i personaggi, mi interessano le persone in palcoscenico. Non considero gli attori uno strumento per portare il testo in scena, ma è il testo ad essere lo strumento attraverso il quale gli attori raccontano la propria esperienza a teatro”.
L’attore assume un ruolo centrale?
“Certo, con il proprio bagaglio esistenziale racconta il testo di Čechov”.
Quindi, cosa vede lo spettatore?
“Una scatola di legno dove avviene la performance. All’interno sono una sedia e gli interpreti nei loro abiti di tutti i giorni. L’attore/ personaggio si racconta o parla con gli altri utilizzando il proprio nome e cognome reale, non con quello dei personaggi: c’è, insomma, una trasposizione totale dalla vita degli attori nel testo di Čechov”.
In questa prospettiva, quale ruolo si ritrovano ad avere l’autore e il regista?
“Lo spazio principale lo occupano il testo e gli interpreti. Il regista è dietro a tutto questo e quasi non si vede. Qui non resta niente della Russia del XIX secolo e di tutto il resto, perché non è necessario per parlare dei problemi attuali attraverso la drammaturgia. È questo il punto cruciale. Nel campo della finzione, il cinema ha prevalso tanti anni fa. Ma in quello dell’incontro tra il pubblico e gli attori, il teatro può fare di più. Allora, facciamolo diventare di nuovo ciò che è stato fin dall’inizio nella Grecia classica: agorà, spazio di rapporto tra le persone”.
Gli spettatori, quindi, entrano nella scatola…
“Sì, in un piccolo teatro di legno dove non c’è niente, se non una minuscola gradinata con gli interpreti a tre metri dal pubblico”.
Il suo scopo è accorciare le distanze.
“INfatti, non sono più interessato a quel tipo di teatro dove platea e attore sono separati da troppo spazio. Penso che debbano essere più vicini l’uno all’altro. Se devo raccontare qualcosa di intimo, penso sia meglio farlo in un luogo in cui si possa stare tanto vicini da tenere la mano dell’altro”.
Dopo l’emergenza che oggi ci impone di stare lontani un metro l’uno dall’altro, credo che saremo tutti felici di ritornare a stringerci la mano. Ma tornando a noi, pensa che questa modalità possa essere condivisa dai suoi colleghi europei?
“Non posso dire cosa dovrebbero fare gli altri! È già abbastanza aver trovato una strada per me. Se in Europa si debba fare questo, non sta a me dirlo, ognuno ha i propri metodi. So solo che è già un successo aver trovato il mio cammino dopo più di 25 anni di professione. È una strada dove mi sento a mio agio e che dà valore a quel che faccio. È tardi, ma va bene così”.
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