Emma Dante affronta Lo cunto de li cunti: “Una lingua stupefacente”
di Stefano Prestisimone
Una scena scarna: due sedioline, un castello in miniatura, un baule. E due attori cui sono affidati i ruoli femminili delle inquietanti vecchine partorite dalle mente fervida di Giambattista Basile, il padre di tutte le fiabe moderne, racchiuse in un solo, monumentale libro, Lo cunto de li cunti, il Pentameron, cui si sono ispirati, tra i tanti, i Grimm, Perrault e Calvino e, oggi, Matteo Garrone con il suo film Il racconto dei racconti. Basile ha incuriosito anche un’autrice e regista teatrale come Emma Dante, siciliana visionaria e sperimentatrice. Il suo spettacolo, La scortecata, arriverà al Bellini di Napoli dal 29 gennaio al 3 febbraio 2019, con Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola.
Emma, che cosa l’ha incuriosita di queste favole?
“Nell’estate di due anni fa ho letto la nuova edizione del Pentamerone, e mi sono appassionata a quel mondo incredibile e affascinante raccontato da Basile, dove si ritrovano le radici delle nostre favole dell’infanzia, come La bella addormentata o Cenerentola. Il materiale mi è parso magnifico per la scena. E, poi, c’è la lingua stupefacente, poco comprensibile forse, ma potentissima”.
E proprio dalla lingua è partita per trasferire quelle emozioni sul palcoscenico?
“Sì, quella è stata la base, anche se ho cercato di trasformarla in un napoletano più moderno e comprensibile. Lo spettacolo è arrivato in Cina e la mia idea è stata proprio quella di diffondere Basile in tutto il mondo. Puoi non capire il significato letterale delle parole, ma il senso è forte e preciso e, comunque, ti puoi innamorare di termini come la “fatazione”, cioè la magia che compie la fata”.
L’ha agevolata avere un marito napoletano, Carmine Maringola?
“Tantissimo, perché ho familiarità con la lingua napoletana e, poi, lui e D’Onofrio hanno improvvisato tanto e io ho attinto a piene mani dalle loro intuizioni. Infine, la scrittura di Basile è scenica, carnale, a partire dalla gestualità”.
Il suo teatro tende a scuotere gli spettatori. In questo caso come si è regolata, visto che le favole di Basile non sono esattamente per bambini?
“Ho lasciato la volgarità perché non risulta sgradevole, anzi è molto poetica; la lingua la nobilita, e anche l’amplesso della vecchia con il re diventa, quindi, un momento di grazia. La scena è essenziale. Ci sono due ‘seggiulelle’, un piccolo castello in miniatura e una cassapanca da cui si tirano fuori le cose che servono a raccontare la favola. Ed è una favola dura, perché racconta una fase della vita difficile, racconta della povertà, visto che le due vecchine vivono in una catapecchia”.
Favola antica e moderna, perché tratta della bellezza voluta a tutti i costi.
“La morale è questa: chi vuole parere bello, dà al viso sembianze poco piacevoli e, a volte, non umane. La vecchia si fa scorticare per tirare fuori la pelle giovane, ma il suo sarà soltanto un calvario”.
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