“Non cloniamo i maestri tradiamoli per innovare”
di Anita Curci
Gennaio 2020
L’arte di Antonio Latella sta nel restituire allo spettatore la contemporaneità di un t sto. Di quest’anno sono I tre moschettieri, Una Divina Commedia – Dante/Pasolini, La valle dell’Eden di Steinbeck, allestimenti “faticosi”, ma appaganti. ‘’Affrontare Steinbeck, con una messa in scena di quasi 6 ore è stato un percorso potente che ha rafforzato in me la voglia di approfondire il ruolo del regista in un Paese che lo mette da parte in favore del capocomicato”, spiega l’artista di Castellammare di Stabia, che nel 2020 concluderà il mandato di direttore artistico della Biennale Teatro.
Latella, che bilancio fa dei 4 anni a Venezia?
“Non lo faccio, penso però che sono riuscito a creare confronti con altre realtà teatrali, portando in Italia artisti finora mai visti. Le loro prospettive hanno permesso di ragionare in modo nuovo. L’artista non lo si giudica solo per quello che mostra, ma anche per il percorso creativo che lo ha portato a quel prodotto. A rendermi felice è stato specialmente il College per registi under 30. Ne abbiamo lanciati quattro che, grazie al bando, hanno attirato l’attenzione degli operatori del settore, soprattutto stranieri. Parlo di Leonardo Lidi, di Manzan, Giovanni Orto leva e Fabio Condemi.
Quali temi ha affrontato durante il suo incarico?
“Quelli che parlano di teatro attraverso il teatro. Siamo stati i primi a fare un festival tutto con regie al femminile. Abbiamo approfondito il ruolo di attore e performer, stabilendone le differenze. Ci siamo interrogati su cosa significhino oggi le parole “drammaturgia’ e “drammaturgo’”.
Che idea si è fatto degli emergenti e che tipo di teatro prevede per il prossimo futuro in Italia?
“Ho notato tra i giovani il bisogno di raccontare la Storia, ma con linguaggi nuovi, attraverso mezzi tecnologici. Questo mi fa sperare nel ritorno della figura del regista, e non con l’impronta novecentesca del dittatore. La nuova generazione sa che un regista è colui che coordina un gruppo artistico e stimola le sue capacità”.
Rispetto al passato com’è cambiata la scena per la società?
“Dobbiamo partire dalla questione pubblico. Chi va a teatro non per pavoneggiarsi, ma per nutrirsi di parole, storie e immagini, sceglie il ritorno a un’antica ritualità. Oggi succede. Me ne accorgo quando propongo una maratona di molte ore; il pubblico affolla le sale e non va via, perché ha voglia di assistere a qualcosa che lo porti in un’altra dimensione”.
Cosa mantiene l’equilibrio tra i tempi che mutano?
“L’abilità di tenere al centro l’uomo e il rapporto con famiglia, religione e politica, creando un ponte tra contemporaneità e passato. Nel Novecento lo si è fatto attraverso la psicanalisi freudiana del testo. Oggi bisogna creare archetipi che diano importanza al personaggio e lo riportino alla sua potenza letteraria”.
Che serve per evolversi senza trascurare le radici?
“La capacità di non clonare. I nostri maestri hanno fatto bene e meglio di noi, ma dobbiamo andare oltre, non replicare il loro lavoro. Uno spettacolo di tradizione va ricordato nel gesto. La sua memoria deve diventare parte del processo creativo, non il processo creativo in assoluto. Tutto sta nel trovare la forza di non imitare e di “tradire” per esplorare nuovi territori”.
Prossimi programmi?
“L’anno venturo porterò a Vienna e in Germania due allestimenti, un testo inglese e un classico americano da cui voglio far emergere il concetto di povertà. Che cosa è oggi la povertà e perché la temiamo?”
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