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Antonello Cossia è il protagonista dello spettacolo Inseguendo Chet Baker di Stefano Valanzuolo

  • proscenioweb
  • 6 gen 2022
  • Tempo di lettura: 6 min

Al Teatro Nuovo dal 12 al 13 febbraio. In scena anche Francesco Scelzo alla chitarra ed Enrico Valanzuolo alla tromba. La regia è di Raffaele Di Florio. La produzione è Altrosguardo



Di Roberta D'Agostino

Chet Baker non voleva che esistesse un altro come lui, che facesse la sua musica, quindi parliamo di un personaggio decisamente egocentrico, come del resto tutti i geni.

Come vedi questo personaggio?

Chet Baker aveva una personalità veramente controversa: semplice, immediata, sensibile e solare da un lato, demoniaca, autodistruttiva, egoistica, fredda e indifferente dall’altro.

Farei però una profonda e netta distinzione tra i vari periodi della vita di questo grande artista: la nascita nel pieno della Grande Depressione, la passione e la voglia di suonare uno strumento, la gioventù, l’avvenenza fisica, la spensieratezza della dimensione cool, le spiagge e il mare della California anni ’50, la capacità di giungere ad un grande e universale apice artistico, creativo, le grandi invenzioni musicali e il successo, seguiti senza soluzione di continuità da un declino e una distruzione fisica senza alcuna indulgenza o protezione, o cura, addirittura senza rispetto verso sé stesso.

Un uomo che ha toccato il cielo grazie al suo puro e innato talento, che sosteneva pochissimo con lo studio, un talento pagato in cambio, oserei dire, con il sacrificio della sua stessa vita, condannata a degenerare fino a toccare i gradini più bassi della dignità e della esistenza umana. La bellezza, l’armonia, l’equilibrio degli assoli, la magia della sua tromba, l’eternità della sua musica, (un dato di fatto più che una mia opinione) corrispondono dal punto di vista umano, al più basso e deplorevole grado di comportamento sia come uomo che come genitore, assolutamente assente, ancora peggio come amante, marito, insomma uno spirito immortale magico ed irrequieto in un essere debole, anaffettivo e totalmente incapace di assumersi una qualsivoglia responsabilità di matrice sentimentale e familiare. Genio e sregolatezza è il caso di dire, in una spirale in cui l’unica costante presente e mai abbandonata, se non per brevi periodi è stata l’eroina, droga che ha falcidiato e decimato un’intera e numerosa generazione di grandi jazzisti.

Non è facile entrare nei panni di personalità così ‘ingombranti’, come ti sei preparato?

Sono entrato in questo vissuto storico, in diversi modi, attraverso varie strade, per acquisire e assumere una fisicità, una visione, un pensiero sulle cose quanto più possibile vicino a quell’esistenza unica, non per riproporre un’imitazione, una copia fedele all’originale, per carità, compito impossibile, ma per diventare tramite tra un’esperienza di vita, che valeva la pena raccontare a teatro e lo spettatore. Mi pongo piuttosto come ponte tra autore e spettatore, per una riflessione condivisa, per un ricordo, per un omaggio alla figura di questo artista che ci ha fatto dono di una musica immortale.

Il punto di partenza, l’origine di tutto, è senza dubbio il bel testo scritto da Stefano Valanzuolo,

di cui sono stato destinatario in maniera naturale, propositiva, scambievole.

In origine il fortunato incontro con Stefano è scaturito da una reciprocità, è stato vicendevole, abbiamo condiviso idee, suggestioni, materiali drammaturgici. È nata così l’idea di un dittico teatrale, unito dal tema della musica jazz, il contesto storico e l’accompagnamento dei musicisti dal vivo.

Due spettacoli insieme, separati da un intervallo: il suo coinvolgente monologo Father&Son - e – Cinquanta bigliettoni – un racconto di Hernest Hemingway del 1927, da me adattato per il teatro

con sei attori. Entrambi i testi, accompagnati dal vivo dai musicisti in una formazione di duo e a seguire di trio. Sulla carta una proposta allettante ed intrigante, tutta incentrata su attori, musicisti, luci, pochi elementi scenici e una scarna scenografia. I problemi produttivi però, hanno fatto sì che per ora sia in scena solo il monologo Father&Son, con l’auspicio di riuscire presto a realizzare l’altra parte del progetto. Mi sono preparato all’interpretazione attraverso la lettura di vari testi: l’autobiografia di Chet – Come se avessi le ali –, il monumentale e preciso racconto della vita di Baker articolato e sviluppato in maniera precisa, fedele, documentata, dettagliata, da James Gavin, scrittore e giornalista di New York, altri testi tra cui – Chet Baker in Italia – testimonianze e resoconti della trentennale frequentazione italiana ‘dell’angelo con la tromba’ come lo soprannominarono in quegli anni nel nostro paese. Ho indagato senza pudore tra i ricordi giovanili molto personali, un periodo di vita in cui generazionalmente l’eroina era una droga diffusissima e in voga, da cui per fortuna lo sport e la passione teatrale mi hanno distolto completamente, non risparmiando tante persone a me vicine, le cui esperienze negative, i loro drammi, mi camminavano accanto.

Ho lavorato più di ogni altra cosa sulla condizione dello stare, dell’essere abitato, senza mai cercare di sopraffare, domare o caratterizzare il personaggio in maniera troppo personale.

Il mio principale grazie va a Raffaele Di Florio che ha vigilato su questa modalità.

Tra realtà e finzione ci muoviamo in questo spettacolo, ma in questa storia l’incontro di Chet con il figlio lo cambia, in che modo e perché?

Incontriamo il grande musicista probabilmente nel giorno in cui poi è morto, lo ritroviamo in Olanda, il testo possiede un equilibrio e una capacità di fondere insieme gli elementi di finzione con quelli reali, mi fa piacere qui citare le parole di Stefano Valanzuolo dalle note di presentazione:

Uno spettacolo che mescola verità storica e finzione. In una sorta di flashback estremo, articolato secondo una sequenza di ricordi, il racconto prova a far rivivere il più romantico tra gli eroi della tromba. Non lo fa curiosando morbosamente tra fatti e misfatti di droga, ma inseguendo, delicatamente, il rapporto - vero o finto, poco importa - di un padre, fragile e geniale, con il proprio figlio. Un rapporto fatto di incomprensione e paura, ma anche di amore infinito per la vita e per la musica”.

Viviamo in un’epoca in cui i rapporti, anche quelli forti, sembra che non esistano o che si è disposti a buttarli via con facilità, perché accade questo?

Non vorrei tirare in ballo un argomento che oramai occupa ogni spazio vitale, mentale, pubblico, privato e personale delle nostre vite, ma è a mio avviso la fondamentale ragione di questa recrudescenza. Non è che la Pandemia è responsabile unica di tutto ciò, diciamo che questo evento drammatico ha giustificato, motivato, scatenato una componente strisciante nella nostra società contemporanea. Da tempo siamo culturalmente concentrati ad evidenziare un possibile nemico, una causa delle nostre frustrazioni, dei nostri fallimenti, proiettando ogni forma di responsabilità in un altro da noi, ora il terrorista islamico, ora il disperato migrante, ora la differenza di pensiero politico, non poteva mancare un virus, la sceneggiatura è compiuta. La mancanza di ascolto, di predisposizione, di apertura, di ammissione dei propri limiti o errori, l’ignoranza, la violenza e sopra ogni cosa la paura, creano un pericoloso miscuglio di instabilità e di rifiuto sociale e comunitario.

La finta certezza e la sicurezza che restituisce il riconoscersi del pensiero omologato e omologante, cancella ogni volontà o curiosità verso il valore e la ricchezza delle differenze religiose, culturali, psichiche, sensibili, in molti casi, sessuali.

Cosa vedrà il pubblico sul palco, come s’intrecciano voce narrante e musica?

Mi preme qui ed è necessario sottolineare a questo punto, la collaborazione con Raffaele Di Florio, compagno di viaggio storico con cui condivido, da tanti anni una pratica del mestiere di palcoscenico, culminata nell’esperienza di firma artistica CossiaDiFlorioVeno, che include un altro fondamentale componente, amico fraterno, il musicista Riccardo Veno. Raffaele firma la regia del lavoro, ruolo necessario che mi ha sostenuto e guidato nel realizzare questo percorso nella memoria, nei sentimenti, nelle parole di Chet Baker, che si racconta al pubblico, senza pudori, senza ipocrisie, senza infingimenti, come in una intervista alla radio, o in una solitaria confessione nel vuoto della sua camera d’albergo, seduto sul davanzale di una impossibile finestra dal quale spiccherà, forse, il volo?

Un mistero che non ci azzardiamo a svelare o a immaginare nello spettacolo, ma che lasciamo aperto e alla libera interpretazione degli spettatori presenti. Si godrà della coinvolgente e qualitativamente ottima esecuzione dal vivo di alcuni grandi classici appartenuti a Chet Baker (My funny Valentine, Let's get lost, Don't explain, I fall in love too easily, Arrivederci, Estate...) qui arrangiati ed eseguiti, rispettosamente e in versione strumentale, da Francesco Scelzo e Enrico Valanzuolo.

Altre importanti e fondamentali collaborazioni, da più spettacoli ormai, sono quella con Annalisa Ciaramella che firma i costumi, Angela Grimaldi come aiuto regia, Massimo D’Avanzo che si occupa della parte fonica e audio e Giusi Langella che cura la produzione per conto dell’Associazione Culturale Altrosguardo.

E’ uno spettacolo che il pubblico napoletano sentirà proprio?

Napoli è una città da sempre abituata ad accogliere e amare persone speciali, generose, non allineate, apparentemente folli, ma delicatamente e profondamente sensibili, persone che appaiono in superficie egocentriche o autoreferenziali, ma che difendono una sensibilità accentuata e non comune, persone straordinarie che in virtù di una natura singolare ed unica donano al mondo, più di quanto il mondo restituisca loro. Chet Baker rientra a pieno titolo tra queste figure.

Mi auguro che venga accolto e venga compreso nella sua straordinaria grandezza, che si trasforma in fallibilità e miseria umana, con amore, con un amore che alberga nel proprio essere che si fa fatica ad accettare, lo si mortifica, lo si stordisce con le droghe ma sempre amore resta sopra ogni cosa...

Lo stesso amore con cui provo a donare questa proposta allo sguardo, all’ascolto, al cuore degli spettatori, che auspico molto, molto numerosi.


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