Ancora non lo sapevo, ma quello spettacolo avrebbe cambiato la mia vita
di Marina Rippa
Non essere altro che il semplice gesto di chi ascolta.
Il gesto cavo.
Da "Coppie, passanti" di Botho Strauss
L’amore per la danza, anche se fatta dagli altri. E per la musica. E la poesia. E il teatro. E tutto quello che riguarda l’intervento artistico nel sociale: coi minori, gli anziani, le donne. Principalmente, e ancora, e ancora, il lavoro con le donne. Da bambina avrei voluto studiare danza, ma in famiglia la cosa non era vista di buon occhio. Quindi ho studiato il pianoforte. Dopo la scuola media avrei voluto fare il liceo artistico, ma anche questa cosa non era vista di buon occhio e quindi mi sono iscritta al liceo scientifico. Non ricordo bene come, ma successe che con i compagni di liceo decidemmo di comprare i biglietti per La gatta Cenerentola di De Simone che si teneva al Teatro San Ferdinando di Napoli. Era il 1976, avevo 15 anni. Sul loggione, in altissimo, sono rimasta folgorata da quello spettacolo: ero estasiata e partecipe di un lavoro così bello, potente e innovativo che, ancora non sapevo, mi avrebbe cambiato la vita.
Intanto giocavo a pallavolo e, in giro per l’Italia, incontravo squadre allenate da uomini, tranne a Caltagirone, in Sicilia, dove non solo l’allenatrice era una donna, ma addirittura faceva il riscaldamento pre partita con la musica... wow! Così decisi che dopo il diploma di scuola superiore avrei fatto l’Isef e, nonostante la famiglia non vedesse di buon occhio anche questa scelta, sono riuscita a spuntarla. Volevo diventare un’allenatrice di alto livello e mischiare le mie passioni (la danza, la musica, lo sport). Ma la strada cambiò quando, al primo anno universitario incontrai una docente che mi aprì il mondo del corpo espressivo. E così dallo sport passai al teatro, che pure era un’arte che mi aveva profondamente toccata, a partire dalla visione dell’opera di De Simone. Anni di studio e ricerca coi piccoli e poi coi più grandi, l’insegnamento dell’educazione fisica nelle scuole medie e superiori, grande “palestra” (in tutti i sensi) per sperimentare e verificare l’importanza del lavoro sulla consapevolezza attraverso il movimento. E gli studi, mai interrotti: il mimo, il teatro danza, l’autobiografia, il Feldenkrais… Agli inizi degli anni ’90, insieme a Massimo Staich (mio compagno di vita da poco scomparso), Davide Iodice e Raffaele Di Florio mettemmo su un gruppo di ricerca teatrale centrato sulla composizione collettiva.
La partitura scenica risentiva degli studi di ciascuno e l’esperienza fu segnata dalle produzioni di diversi spettacoli portati in giro in tutt’Italia e all’estero. Mi ha sempre mossa la ricerca di un teatro popolare e colto, allo stesso tempo, una visione del lavoro scenico complessa e semplice. E non ho mai perso la curiosità di vedere spettacoli di vario genere, fattura, linguaggio e lingua. E, soprattutto, ho coltivato l’interesse per l’universo femminile, con il coinvolgimento di gruppi di donne anziane, giovani, meno giovani, da metà anni ‘90 a tutt’oggi, nei laboratori teatrali che ho tenuto e tengo nei quartieri complessi della mia città. Da tutto questo fiorisce il lavoro che ora porto avanti nei territori, non senza fatica, dato il delicato momento emotivo (ma anche epocale) che sto e stiamo attraversando. Adoro le storie: ascoltarle, trasformarle e farle narrare da chi pensa di non aver niente da dire. Accogliere le spinte espressive delle persone, dedicare tempo ad esse, questo mi muove. E, così: “Non essere altro che il semplice gesto di chi ascolta. Il gesto cavo”.
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