Da William Shakespeare con Laura Angiulli alla regia
di Marco Catizone
Sipario. S’apre la scena, i congiuranti son da presso, l’emiciclo è come tabula rasa, immensa sulla scena, inclinato proscenio per piani e macchinazioni, per mendaci fole a tempesta infurianti, per “amici” un tempo sodali, quali Bruto e Cassio, pronti a serrar ranghi, a gettar stola per nascondere pugna, intrisa nel pugnale: il destino di Cesare agli occhi di Shakespeare appare fosco, nefasto per presagio e già trascorso: è un lemure ad apparire sulle assi, un Dictatorcavo, simulacro di tiranno in pectore e nuce; un’Erinni a scatenar angosce e titubanze per progenie politica e marziale, per quei Cassio, Casca, Metello, Bruto (il “fido Bruto”...) pronti al parricidio per preservare Senatus, Popolo e supposta Libertà.
Col Bardo di Stratford ed il suo psico-drama eccelso, gli archetipi ed istinti, capolavoro di retorica in dialettica a compulsione, simbiosi ancestrale, quella endiadi sofferta tra Uomini e Potere: tutto questo è il Giulio Cesare, col Divino dittatore, solo e in ambasce, in attesa che il presagio si compia, che le punte famiglie si conficchino nelle carni, che il pelago di sangue ne corroda le poche certezze; solo e contrito, a porsi il suo triste rovello, col trionfo e l’alloro a cingergli il capo, mentre ai suoi piedi sgocciola il sangue, a divenire pozza in cui annegarsi, negandosi al mondo.
Sorte e ripudio speculari, ad intridere le mani assassine, di Bruto in primis, che cala il colpo nelle pieghe del torso, che stringe a sé l’amico Cesare, il liberticida Giulio, prima di immergere a fondo lama e rovelli, per quietare i singulti, per sopire litania, la funerea rapsodia, che la morte tragica reca seco da presso.
Plauso alla regia asciutta della Angiulli, la scenografia corvina e sobria rende poi l’alea dell’imminente sacrificium, nel sacello ligneo della Galleria, coi rivoli a rua dei Quartieri a stringersi come domino in caduta, una gravitazione inversa ad inghiottir attori, palco e platea, quando il brivido dell’orazione funebre del bell’Antonio si frange come flusso di coscienza sul Populus Romanorum, riannodando i fili laceri d’un corpo annichilito dal peso di colpe non ancora mature, in hoc signo disciolte, nel solco di mai risolto enigma, ovvero se sia giusto privare della vita (la libertà più alta d’ogni essere e creatura), nel nome di Libertà privata, sacrificando le spoglie umane sul tavolo a risiko d’un Potere che annichilisce e divora, insensatamente mai sazio, sempre gravido.
Chi, tra i tanti attori discenderà il crinale, degradando l’essenza concreta (reale) d’un potere ormai vacuo e senza stola, pagando il prezzo d’una trama che disfece in zavorra colui che prima era in giusto peso? Folle il gesto a congiura, ma necessario per riannodare la trama d’un destino più alto, per fasti a Pax Romanorum, nel segno d’Augusto, quell’Ottaviano che scelse da che parte dell’elsa insanguinata restare, contemplando il sacrificio nel nome della Storia.
Testo classico, eccelsa silloge del teatro shakesperiano, agli interpreti il plauso di averne reso il nesso, il senso e l’angoscia; qualche remora sulla scelta dei ruoli a personaggio chiave, non sempre convincono alcuni nell’amalgama a proscenio: eppure ampio merito, perché la lingua cerusica e barocca del Bardo è ancora balsamo in questi tempi disciolti in media res, di mediocrità avulsa e schizofrenica al Potere. Asciutta, ca va sans dire, la regia, con ombre e luci ad incastro, ed attori come pedine ben mosse: congiura in tal guisa perfetta.
Scacco a Cesare, Shakespeare è servito.
Con Bruno Tramice, Alessandra D’Elia, Stefano Jotti, Luciano Dell’Aglio, Paolo Aguzzi, Antonio Marfella, Andrea Palladino, diretti da Laura Angiulli alla Galleria Toledo di Napoli fino al 13 marzo.
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