Con la regia di Elio De Capitani, lo spettacolo andato in scena nel Cortile della Reggia di Capodimonte ha inaugurato al meglio la quattordicesima edizione del Campania Teatro Festival
di Antonio Tedesco
Napoli - C’è una musica che fa da colonna sonora all’angoscia. Un brano di sublime bellezza che si trasforma in campanello d’allarme dell’orrore. Ogni cosa può diventare il suo contrario. E la bellezza, forse, non basterà a salvarci. È un coltello calato con crudeltà in una ferita aperta La morte e la fanciulla, il testo scritto nel 1991 dall’autore cileno Ariel Dorfman che trasforma l’esperienza vissuta dal suo Paese, ma anche da altri nell’America Latina e non solo, in un lancinante dramma da camera. Tre personaggi in un interno. Tre storie legate agli anni terribili della dittatura. Una coppia, Paulina, che ha vissuto sulla sua pelle le violenze e i soprusi di quegli anni; suo marito, Gerardo, avvocato, che grazie all'eroico silenzio di quella che oggi è sua moglie, ha potuto salvarsi e continuare ad operare nella Resistenza. E adesso, con una seppur debole democrazia ripristinata, partecipa alla commissione che indaga sui crimini politici di quegli anni. Il “terzo uomo”, il dottor Miranda, è la presenza più ambigua e inquietante. Una sorta di passato che ritorna e che grazie ad un escamotage drammaturgico (soccorre in una notte di bufera l’avvocato rimasto in panne con la sua auto) riaccende in Paulina paure e ricordi mai sopiti. Lei, che da prigioniera era sempre stata bendata, lo riconosce, o crede, dalla voce, da piccoli dettagli, modi di dire e di parlare, dall’odore perfino. Il suo aguzzino. Il dottore che doveva stabilire il limite sopportabile di tortura e trasformatosi poi in torturatore lui stesso. Paulina lo intrappola, lo sequestra, legato alla sedia e sotto la minaccia di una pistola, imbastisce un processo sommario sotto lo sguardo allibito del marito avvocato. Gli fa ascoltare il quartetto di Schubert che dà il titolo alla pièce e che il dottore teneva sempre in sottofondo durante le sue “operazioni” tanto che è diventato per lei il suono stesso della paura. L’atmosfera si fa tesa, incandescente. I dialoghi serrati e incalzanti. L’uomo nega, si dichiara estraneo, lei continua a rinfacciargli le indicibili umiliazioni subite e l’orrore che non l’ha più abbandonata nei quindici anni successivi, fino a oggi. Finché anche il marito avvocato sembra, poco alla volta, superare l’iniziale scetticismo e, colpito da dettagli che la moglie non gli aveva mai rivelato prima e nonostante la sua delicata posizione di membro della commissione, si convince a cercare in quell’uomo quale sia la verità.
Elio De Capitani ritorna su un testo che già aveva messo in scena nel 1998 con il Teatro dell’Elfo per ribadirne la costante attualità, l’ambiguità subdola e melliflua con cui il potere riveste ogni abuso, ogni violazione dell’umana dignità. Ma anche il fatto che potenzialmente ogni uomo, forse, possiede nella sua natura questo germe malefico che può trasformarlo in micidiale strumento di quel potere se non addirittura esserne il nutrimento segreto. Non a caso la scena è neutra, solo un tavolo, qualche sedia e pochi indispensabili oggetti. Il luogo è volutamente indeterminato e i tre personaggi entrano e si posizionano in una sorta di compresenza fin dall’inizio quasi a dire che il male c’è, è lì presente, costante, basta solo scavare un poco o, come il dottore confesserà alla fine, creare l’occasione giusta per farlo venire fuori. Gli attori “costruiscono” l’ambiente recitando le didascalie del testo, nelle quali poi si inseriscono e prendono vita le battute del dialogo, e con esse il teorema dell’orrore che ognuno, anche se ignaro, si porta dentro. Il testo di Dorfman ha una matrice umanistica prima ancora che politica. E la regia di De Capitani lo evidenzia non risparmiando il pubblico. Paulina si chiede quante volte nelle occasioni mondane con il marito può aver incontrato complici e conniventi in incognito del regime totalitario mentre un faro dal palco sembra frugare con insinuanti fasci di luce fra gli spettatori. O nel finale, quando il violento psicodramma sembra essersi consumato con la rinuncia della vittima a trasformarsi a sua volta in carnefice, gli attori scendono in platea, come per assistere a un concerto, ovviamente La morte e la fanciulla di Schubert. E in quell’ideale contesto di elegante mondanità, in quella sorta di territorio neutro ricolmo di ipocrisia, Paulina scorge tra il pubblico il dottore, pienamente a suo agio nella sua dimensione sociale di uomo apprezzato e rispettato. I loro sguardi si incrociano, e in quell'ulteriore, perturbante incontro stavolta siamo coinvolti tutti, non c'è più la distanza dalla scena, perché la scena siamo noi, ognuno con il suo grado maggiore o minore di consapevolezza, ognuno pronto all'occorrenza, a trasformarsi in ciò che neanche immagina.
Ottima la prova dei tre attori impegnati in ruoli complessi e ricchi di sfaccettature, ognuno bravo a costruire il suo piccolo universo personale. Spigolosa a tratti, ma anche viscerale e incontenibile, Marina Sorrenti carica di sfumature sofferte e contrastanti il difficile personaggio di Paulina, mentre Claudio Di Palma cala il dottor Miranda in una misurata tessitura di tic fisici e verbali facendo emergere dalla sua “normalità” segnali inquietanti e minacciosi. Così come ben calibrato ci è parso Enzo Curcurù, l'avvocato costretto a una funzione di intermediario, diviso tra la necessità di salvaguardare i modi e le forme del giusto processo e l'ansia di comprendere quali fossero le reali colpe di quell'uomo nei confronti di sua moglie. Lo spettacolo, andato in scena nel Cortile della Reggia di Capodimonte ha inaugurato al meglio la quattordicesima edizione del Campania Teatro Festival.
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