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Bros – Concezione e regia di Romeo Castellucci

Al Teatro Bellini di Napoli dal 13 al 18 dicembre


di Antonio Tedesco

Di quale “spettacolo” parla Romeo Castellucci nelle note di regia diffuse dagli Uffici Stampa dei teatri in cui si tiene la sua ultima creazione Bros (al Teatro Bellini dal 13 al 18 dicembre). Quando dice, tra l’altro, che gli attori “reclutati sul posto non hanno imparato la parte: la imparano mentre la assumono, attraverso l’esecuzione di ordini telecomandati”? Le note di regia sono sempre una forma di paratesto rispetto allo spettacolo. Ma qui assumono un valore ulteriore. Enigmatiche ed esplicative allo stesso tempo. Sovrappongono perfettamente l’azione teatrale a quella del mondo. Trovano una coincidenza che va ben oltre il luogo comune (la vita è teatro… ecc.). Introducono in un contesto scenico che ci risucchia negli anfratti più oscuri della coscienza individuale e collettiva. Ne sollecita il rimosso e lo trascina in superficie. Ci mette di fronte all’orrore che cerchiamo di soffocare dentro di noi. Questi poliziotti-automi che riempiono la scena come infiniti replicanti di un’unica matrice (un po’ come in Matrix, appunto), nelle loro uni-formi tutte uguali, con i loro gesti meccanici dettati da una sorta di automatismo indotto (il fantomatico, inudibile, telecomando), non sono (o, almeno, non solo) il simbolo dell’ordine costituito, quanto la rappresentazione stilizzata, verrebbe da dire quasi “grafica” (nel senso di trasposizione in “immagine”) di un ordine oscuro e pervasivo, metafisico e concreto ad un tempo, qualcosa di insito, di profondamente radicato nella natura umana. Una rappresentazione scenica, questa di Bros, che funziona (come quasi sempre per Romeo Castellucci) come un’installazione vivente, animata e statica insieme. Un’estensione teatrale dell’arte concettuale, dove il “simbolo” coincide con la materia stessa della rappresentazione. Ci troviamo, quindi, su una sorta di “palcoscenico-mondo” sul quale si mima in forma estrema e rarefatta, ma anche diretta e disturbante, il percorso “funzionale” e sotterraneo dell’esistenza. Di ognuno e di tutti. Lo smarrimento che si traduce in violenza e sopraffazione. In azione cieca e omologazione. La piana e rituale obbedienza ad un’entità oscura, irraggiungibile, quando non indefinibile. L’azione a tratti schematica, a tratti concitata, è cadenzata dall’esibizione di figure, foto di grande formato, abbinate a frasi che ne proiettano il significato in dimensioni ulteriori e dialogano in modo oscuro e misterioso con l’evento scenico. Quest’ultimo è introdotto da un certo numero di versetti biblici tratti dal Libro di Geremia, recitati dall’attore rumeno (e in rumeno, ma viene fornita la traduzione insieme ad altri supporti “paratestuali” distribuiti al pubblico) Valer Dellakeza. E viene conclusa, come a chiudere il cerchio, da una sua rigenerazione in forma di fanciullo. Sulla cui tunica bianca, simile a quella indossata dal profeta, compare, però, il minaccioso distintivo presente sulla divisa dei poliziotti-attori. Difficile dare conto in maniera esaustiva di tutti gli stimoli e i “segni” presenti nella rappresentazione. Basti dire che la sequenza di azioni così concepita, il tappeto sonoro che l’accompagna (le musiche elettroniche di Scott Gibbons e i suoni-rumori ritmici e ossessivi prodotti sulla scena), la penombra nebbiosa che la avvolge per gran parte della durata, mettono a dura prova la resistenza dello spettatore (non infrequenti le “uscite di sala” da questo come da altri spettacoli di Castellucci). Ma è il prezzo che bisogna pagare se si vuole guardare oltre il velo consolatorio e confortante delle illusioni.


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