Un po’ perplessi e abbastanza mascherati
Di Eduardo Cicelyn
Dicono che la pandemia sia sotto controllo, forse finita. Eppure ogni giorno i numeri della malattia crescono. Ci siamo vaccinati facendo gli scongiuri, mentre notizie contrastanti sulla bontà dei sieri inoculavano in noi anche retrovirus e retropensieri: cioè vettori virali, messaggeri Rna e non si sa quali altri misteriosi agenti, oggi in sonno, domani chissà. “No vax” e “Boh vax” manifestano a giorni alterni, aspettando gli effetti che inducono prima e seconda dose su quelli che non sfilano in strada perché dalla campagna vaccinale non si son voluti sfilare. Gli uni fanno il tifo contro gli altri per vedere chi si ammala per primo, sputtanandosi a vicenda. Intanto, nel mondo reale, cioè fuori dalla bolla mediatica che ci ammorba da due anni con numeri e notizie contrastanti, la vita sembra aver ripreso un certo andamento normale.
Finanche il green pass, piano piano, sta diventando una cosa comune, una specie di oggetto transizionale che rassicura e fa dormire tranquilli i cittadini ridiventati bambini. Dal tenerci chiusi in punizione con il lock-down al farci uscire col permesso scritto, questi governi paternalistici si deve però ammettere che un piccolo sforzo di democrazia l’hanno tentato. Tra gli arresti domiciliari e la libertà vigilata, un codice Qr tutta la vita!
Allora si torna al cinema e al teatro. Tutti un po’ perplessi, abbastanza mascherati, socievoli quel tanto che basta per non sentirsi scortesi. La prevalenza del virus ci ha reso sospettosi, circospetti e scontrosi. Un colpo di tosse in sala o una mascherina scivolata sotto il naso creano gravi inimicizie tra vicini di poltrona, scatenando le premurose censure delle maschere. Nei foyer, niente strette di mano, pugno contro pugno, senza l’ausilio del labiale e della mimica espressiva si commenta tra sordi un po’ ciechi, alla fine a vanvera, spettacoli sopravvissuti alla pandemia che noi, spettatori dal piglio intelligente, cerchiamo di leggere e integrare nel cattivo spirito del tempo.
Nei giorni eroici del primo lock-down si diceva che nulla sarebbe stato come prima e che comunque tutto sarebbe andato bene. Poi è successo che tutto sembra come prima e che non è chiaro che cosa sia andato bene. Un certo cinema d’evasione spettacolare, il teatro scanzonato, ridanciano oppure ben rifinito e pieno di storie anche interessanti non è che vadano male, però si sente che mancano di ritmo o di uno strano non so che. Un impercettibile sfasamento come un fermo immagine malriuscito e tremolante, poi un vago rumore di sottofondo, una specie di lontano suono ostile e secondario: qualcos’altro agisce e turba le rappresentazioni, le messe in scena, le narrazioni disponibili oggi come oggi nei nostri cinema e teatri.
Forse noi spettatori non siamo più quelli di prima. E non per questo migliori. Ci riuniamo, ci avviciniamo per decreto governativo anche al cento per cento, ma restiamo lontani e sempre più separati. Un po’ ottusi. Per Guy Debord, questo in effetti sarebbe il senso dominante dello spettacolo moderno: separare la società tra chi recita e chi applaude. Oggi però neanche di questo possiamo più essere sicuri. Hanno fallito tutti i sistemi di distanziamento. Per paradosso, abbiamo scoperto che per quanto ci vogliamo allontanare, distinguere o relegare e segregare, l’umano che è in noi condivide, contamina, contagia. Magari è questo il fatto nuovo e magari è anche positivo. La comune essenza, anche spiacevole e infettiva, nonostante la diffidenza sempre più manifesta degli uni verso gli altri, è la percezione straniante di noi stessi, che si espande come goccioline di saliva, colmando divari e restituendo vita e corpo a concetti generici quali umanità e umanesimo. Nei modi un po’ malati, incerti, isterici e sempre contraddittori di chi scambia spesso l’immaginazione con la realtà, da spettatori nuovi e frastornati ci stiamo accorgendo che le barriere tra noi sono fragili e inutili, così come quelle tra pubblico e palcoscenico. E cominciamo a capire che tutto quello che succede lassù, se non ci riguarda e non ci parla faccia a faccia, probabilmente è falso e stupido. Che insomma non c’è più tempo e scampo per un’arte d’evasione, soddisfatta di se stessa. Siamo fatti tutti della stessa materia che qualche volta sogna. Possiamo dirci finalmente le cose come sono. Anche a teatro e a cinema nessuno vive e nessuno si salva da solo.
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