L’attore diretto da Arcuri dà voce e suono, con i Marlene Kuntz,
a un capolavoro del cinema muto. Atmosfere claustrofobiche
di Maddalena Porcelli
Grande attesa per lo spettacolo Il Castello di Vogelod, tratto da una rilettura dell’omonimo film muto di Friedrich Wilhelm Murnau del 1921, al Teatro Nuovo di Napoli dal 22 al 25 novembre 2018. La regia è di Fabrizio Arcuri. La produzione è di Nuovo Teatro, diretta da Marco Balsamo.
Sulla scena Claudio Santamaria, voce narrante e interprete dei personaggi del film, proiettato sul fondo e impreziosito dalla musica dei Marlene Kuntz, che hanno creato un’inedita colonna sonora. Viene spontaneo chiedersi come possa una voce narrante inserirsi laddove manca il sonoro e quali siano gli effetti di quest’operazione. Ma è proprio l’attore a dirci che le difficoltà non hanno riguardato quest’aspetto, quanto piuttosto lo sforzo di dover interpretare sia gli uomini che le donne, di rendere chiari i mutamenti dei personaggi e delle intenzioni: cambi di personalità diverse che agiscono e dialogano in una stessa scena. D’altronde – aggiunge – “il nostro sforzo rappresenta anche la parte più interessante e addirittura più divertente del lavoro interpretativo, tutto fondato sulla pura osservazione dei movimenti, dei gesti e degli stati d’animo dei personaggi”.
Lo spettacolo è già stato rappresentato lo scorso anno all’Ambra Jovinelli di Roma, riscuotendo i favori della critica.
Certo, Murnau aspirava alla totalità delle forme d’arte, e la fotografia e la pittura erano per lui elementi essenziali del teatro. Ciò spiega la volontà di Arcuri di coniugarlo con musica e cinema: un procedimento che valorizza arti diverse e che Santamaria reputa stupefacente per la capacità di destare l’attenzione del pubblico.
La trama ha le sembianze di un thriller, e si concentra su un gruppo di persone della decadente aristocrazia, costrette dal maltempo a rimanere nel castello in cui si sono radunati per una battuta di caccia.
L’arrivo di un ospite inatteso, il conte Oetsch, accusato di aver ucciso suo fratello qualche anno prima, crea tra gli ospiti un’aria cupa, di tensione claustrofobica, tanto più quando sopraggiunge la baronessa Safferstatt, vedova del morto, risposatasi dopo il lutto.
L’imbarazzo è in parte attenuato dalla promessa di un altro arrivo, quello di Faramund, padre spirituale dell’assassinato che, in realtà, non è il vero sacerdote, ma lo stesso Oetsch travestito, intenzionato a smascherare il colpevole. L’omicida, alla fine, verrà fuori: è il barone Safferstatt, che ha ucciso per liberare la baronessa da un matrimonio infelice. Il suo atto lo indurrà al suicidio.
Più che la trama, però, ciò che conta sono le atmosfere create grazie alla scenografia del geniale Hermann Warm, che alternava scenari realistici a quadri espressionisti, e alla scrittura efficace di Carl Mayer, che con Murnau frammentò lo spazio per isolare i personaggi nel loro tormento interiore, e mostrare la totale assenza di rapporti interpersonali tra gli ospiti del castello, entità uniche e distinte, calate in un clima sospeso, angoscioso, paralizzante, carico di terrore.
Anche l’arrivo dell’“altro” rappresenta ciò che turba la quiete ma, allo stesso tempo, quell’elemento capace di svelare la menzogna e far trionfare la verità.
Non a caso, nel film, sorprende proprio la messa in scena, che a partire da una narrazione ordinaria, ricavata da un romanzo di Rudolf Stratz, è sconvolta proprio da codici secondari come la scenografia, la fotografia, la pittura; così come in questo spettacolo diventano indispensabili i Marlene Kuntz, capaci di creare quegli ambienti ipnotizzanti, trasognanti e irreali, tipici dei film di Murnau.
Resta, tuttavia, un’ulteriore domanda: a che si deve la scelta di un film degli anni ’20 dello scorso secolo e quali, se esistono, sono i parallelismi con la contemporaneità?
Santamaria sostiene che ci sono sempre analogie col passato, ma non azzarda confronti. Tuttavia, non si può non constatare quanto il contesto storico di quel periodo abbia determinato la psicologia dei personaggi e quanto serva ripercorrerlo per orientarsi nel flusso delle emozioni scaturite dal film.
Siamo nella fragile repubblica di Weimar, in un momento di grandi tensioni, conflitti economici e sociali, in cui la Germania, umiliata nella Prima guerra mondiale, vive un profondo sconvolgimento, che si riflette nell’inconscio collettivo.
L’incomunicabilità, l’isolamento, la coscienza di un’esistenza illusoria e caduca sono i temi che interessano gli artisti dell’epoca.
Ebbene, quella moltitudine atomizzata che descrive Murnau assomiglia un po’ alla nostra, a quella che appare come una democrazia tradita e che nella psiche delle masse suscita l’odio, ben indirizzato dall’alto, verso i più sfruttati.
Si comincia a odiare l’ebreo accanto che ha un negozio concorrente, così come si comincia a odiare il migrante che ci ruba il lavoro. Santamaria dichiara di amare soprattutto Aurora, altro grande film del regista tedesco, sottolineandone l’attualità universale, e forse è meglio sperare con lui che sia l’Aurora a prevalere piuttosto che il buio della ragione.
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