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"Risate di gioia" di e con Elena Bucci e Marco Sgrosso.

Nel Cortile della Reggia di Capodimonte un tuffo nostalgico nella storia del teatro.



di Antonio Tedesco

Napoli – Come preservare la memoria del teatro, arte per sua natura effimera, sfuggente, legata all’attimo in cui si manifesta? Come fissare vite, emozioni, momenti, esperienze vissute sulle tavole del palcoscenico, ma anche nella provvisoria intimità dei camerini? Come dare forma a questa infinita quantità di sensazioni così intense ma così inafferrabili? Elena Bucci e Marco Sgrosso, fondatori e animatori della Compagnia Le Belle Bandiere, cercano di rispondere a loro modo a questa domanda trasformando in teatro la storia del teatro stesso. Non a caso il sottotitolo di Risate di Gioia, lo spettacolo messo in scena nel Cortile della Reggia di Capodimonte nell’ambito del Campania Teatro Festival, è Storie di gente di teatro, ed è liberamente ispirato a testi, storie, memoriali, biografie, epistolari dedicati a vario titolo ai molteplici aspetti dell’arte scenica e in particolare all’arte dell’attore, nelle varie forme in cui si è storicamente proposta. Questa affascinante storia viene dunque ripercorsa utilizzando i mezzi e gli strumenti che le sono propri e ne costituiscono addirittura il cuore pulsante. Da attori esperti e consumati quali sono, Bucci e Sgrosso, sanno come rievocare atmosfere e restituire emozioni antiche con pochi e sapienti tocchi. Richiamano sulla scena nomi, gesti, azioni che aleggiano, come fantasmi della memoria, su ogni palcoscenico. Ritrovano il valore nella magia di un teatro che svanisce nel suo farsi. E in questa continua evocazione di una memoria impossibile, che è, alla fine, effimera essa stessa nel momento in cui viene messa in scena, ci dicono molto sul senso profondo di quel teatro, su ciò che stiamo guardando in quel momento e sul perché l’arte scenica, un susseguirsi ogni volta di momenti irripetibili, sia quella che più di ogni altra rappresenta la vita e che nessuna tecnologia potrà mai surrogare. Così ascoltiamo e riviviamo storie di teatro, tristi, allegre, buffe, dove fanno capolino nomi famosi: Petito padre e figlio, artefici dell’immortale mito di Pulcinella; Eleonora Duse, ineguagliata regina d’arte drammatica, i fratelli De Rege di “vieni avanti cretino!”, ma senza dimenticare l’infinita schiera di generici, comprimari, suggeritori, maestranze, che sono l’anima stessa del teatro, un brulichio di esistenze spesso difficili e faticose, ma sempre nutrite, ognuna a suo modo, dal sacro fuoco dell’arte e della scena. Non per niente il titolo dello spettacolo allude al film di Monicelli del 1960 (ispirato a sua volta a un racconto di Moravia) che aveva come protagonisti Totò e Anna Magnani, due scalcagnate comparse di Cinecittà con trascorsi nel Teatro di Varietà, come era stato poi davvero per i due artisti. Una maniera, insomma, per celebrare quella “gente di teatro” che per una vita intera, ogni sera, sale su un palcoscenico per calarsi in altre vite, essere altro da sé e, forse, più che mai sé stessi.

Della bravura, efficacia e versatilità di Elena Bucci e Marco Sgrosso abbiamo già accennato. L’atmosfera che sanno creare è ammantata da un senso di magia ottenuto con l’ausilio di pochi oggetti di scena e di veli ondeggianti fra le quinte. Le luci di Loredana Oddone avvolgono in un contesto quasi straniato la performance dei due attori, così come il tappeto sonoro di Raffaele Bassetti che li accompagna. Il tutto a costruire uno spettacolo che in platea si percepisce come un work in progress, e che forse non potrebbe non esserlo, lasciandoci come una sensazione di attesa, quasi una richiesta, una voglia di nuovi elementi tecnici e testuali che arrivino ad arricchirlo. Anche perché il lavoro sulla memoria, nel teatro più che altrove, non ha altro modo di essere se non quello di una pratica costante, continua ed incessante.


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